giovedì 20 novembre 2014

La madre cattiva



                                                          LA MADRE CATTIVA

                                           Giovanni Segantini

                                        LE CATTIVE MADRI


Giovanni Segantini, Le cattive madri, 1894, Kunsthistorisches Museum, Wien
     " Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco."
Dante Alighieri,  Inferno, Canto XIII ( vv.4-6 ) 

" Solo, senza amore, da tutti abbandonato come un cane rabbioso", Giovanni Segantini, Testo biografico, in Maria Cristina Gozzoli, L'opera completa di Segantini, Introduzione di F. Acangeli, Milano, Rizzoli, 1973

               In una landa desolata, innevata e gelida, un albero insecchito, spoglio, spunta dalla coltre bianca. Fra i suoi rami una donna a seno nudo con i lunghi capelli rossi al vento impigliati ed una svolazzante veste di veli bruni e azzurrini si regge sospesa nel vuoto mentre un bimbo succhia il latte da una delle sue mammelle. 
La donna sembra come presa da un furor estatico, come una baccante deprivata della sua violenza e della sua eccitazione; il suo viso è tormentato e allo stesso tempo catturato da un moto interiore che sprigiona un'estasi di redenzione : il bimbo dai capelli rossi può finalmente allattarsi al seno materno dopo essere stato respinto, allontanato, da una madre degenere che ora, finalmente, può restare appagata, soddisfatta, sebbene non sembra rendersene conto e piuttosto appare riempita da una grande calma interiore. L'albero non è propriamente secco, senza vita, una vita c'è. Esso vive per quella vita e quella vita lo fa vivere ed esprimersi animandosi, come l'albero dei suicidi del XIII dell'Inferno dantesco, quando è l'albero di Pier delle Vigne, morto suicida, a raccontare la sua vita nel gelido Cocito. In questo dipinto Segantini prosegue un discorso iniziato con un'altra opera : Il castigo delle lussuriose:



        Giovanni Segantini, Il castigo delle lussuriose, pastello su cartoncino graffito, 1897,Kunsthouse,Zurich


In un paesaggio desolato, innevato e gelido, coronato dalla cerchia delle montagne illuminate da un sole freddo due donne, una opposta all'altra, unite dalla medesima veste a filetti argentati, con il seno scoperto e i lunghi capelli al vento fluttuano nell'aria a poca altezza dal suolo, mentre sul fondo, fluttuando anch'esse nell'aria, due altre figure di donne vestite allo stesso modo, sono già giunte alla salvezza e già toccano il suolo.  Sono le anime delle donne che hanno abortito, che hanno rifiutato la vita che avevano in grembo ( è significativo come la veste , che copre le due donne, le unisca al ventre ) e sono condannate a vagare nel silenzio eterno della desolata valle ghiacciata.  La raffigurazione delle lussuriose venne ispirata  al pittore da un poema indiano Nirvana , tradotto dal librettista Luigi Illica : 

"Or ecco fuori della vallea livida/ appaion alberi! Là da ogni ramo chiama forte un'anima/ che pena ed ama; ed il silenzio è vinto e la umanissima/ voce che dice: Vieni! A me vieni, o madre! Vieni e porgimi/ il seno, la vita. Vien, madre!... Ho perdonato!... Là fantasima/ al dolce grido vola disiosa e porge al ramo tremulo/ il seno, l'anima. Oh, portento!/ Guardate! Il ramo palpita!/ Il ramo ha vita! Ecco! E il viso d'un bimbo, e il seno succhia/ avido e bacia! Poi bimbo e madre il grigio albero lascia/ cadere avvinti... Là su Nirvana irradia! Là su il figlio/ con seco tragge la perdonata Madre... I monti varcano/ le due fantasime! ... Varcan l'angoscia de le nubi e volano/ dove è Nirvana. Oh, umana questa fede che dimentica/ e che perdona".


Per essere più precisi la raffigurazione che ne ricava Segantini riguarda entrambi i dipinti: per meglio dire, ne  Le cattive madri , che sono protagoniste negative de Le lussuriose , il bambino che vediamo mentre si stringe al seno della madre ( e che fa fuoriuscire la sua voce dall'albero della vita nella quale sembra essere contenuto ) , richiama le donne che volteggiano nella landa ghiacciata e deserta enunciando il suo perdono e una donna, perdonata, dopo aver varcato l'angoscia del peccato volando fra le nubi dove è la purificazione dell'anima, dove è il nirvana, ed essersi abbassata a toccare finalmente terra, si riunisce, finalmente al bimbo sul ramo " che ha vita ". Il tema esprimeva la condizione dell'infanzia del pittore, dopo la morte della madre che lo lasciò all'età di cinque anni e l'abbandono da parte del padre che lo aveva affidato ad una sorella ed era partito per l'America. Dall'affidamento infelice, poi, era passato da un orfanatrofio all'altro, sempre in una condizione di povertà, tristezza e malinconia. Il riferimento costante alla madre e alla maternità ritorna spesso nell'opera di Segantini, specie nella sua fase simbolista e il ricordo della madre sarà sempre presente anche nei ricordi biografici: " Io la ricordo ancora mia madre...la rivedo con l'occhio della mente, quella sua figura alta, dall'incedere languido. Era bella, non come aurora o meriggio, ma come tramonto di primavera"( Buffagni,2009, 143 ). Nei due dipinti domina un tema simbolico molto caro al pittore, che aveva vissuto nel Cantone svizzero dei Grigioni, in diretto contatto con la natura montana, quello della sacralità della montagna: un luogo fuori dal mondo, fra paradiso e inferno dantesco. La montagna come centro cosmico e luogo della divinità o dove dio si manifesta è un aspetto di rilievo nella figurazione di Segantini. E la montagna come espressione profonda di un silenzio superiore che è al tempo stesso pace e condanna. Insieme al simbolismo della montagna di grande importanza è il simbolismo dell'albero. Segantini guarda in specie all'associazione fra maternità sacra e albero della vita. Nell'iconografia cristiana l'albero è infatti il simbolo della vita voluta da dio, quindi sacra e inviolabile.  L'albero è inoltre collegato al simbolismo della morte e della rinascita ( e dunque della resurrezione ) : muore in inverno ( come Cristo sulla Croce ) e rinasce o risorge in primavera ( come Cristo che lascia il sepolcro per andare in Cielo e ricongiungersi al Padre ). Ma nell'albero è insistita anche una forte simbologia mariana. Superata la prima fase, quella dell'Alto Medioevo, in cui dominavano ancora elementi di paganesimo che portavano a credere che gli alberi, le querce in particolare, fossero abitati dagli spiriti maligni e che quindi andavano abbattuti, più tardi, dopo l'anno Mille, cominciarono ad assumere elementi positivi e spesso venivano collegati alla vita, alla nascita, alla morte cristiana. Intanto fra le fronde degli alberi si cominciò a vedere la Madonna e si diffusero santuari di S. Maria della Quercia. Giacinto Gimignani, pittore seicentesco, dipinse nell'Oratorio Vecchio di Prato a Prato Serio, in provincia di Novara, una Madonna della quercia e Santi , in cui si vede, al centro delle frondi, una specie di nicchia vegetale con una Madonna e Bambino.  E' possibile che Segantini la conoscesse, tuttavia gli esempi pittorici classici non potevano mancargli a cominciare dalla Madonna della Quercia di Raffaello, dove l'associazione con la robusta pianta rimanda alla robustezza della fede in dio. L'idea di associazione fra la madre, il bambino e l'albero, era stata già sviluppata da Segantini nel dipinto L'angelo della vita , del 1896:



Giovanni Segantini, L'angelo della vita, 1896, Segantini Museum, St. Moritz








A differenza delle Cattive madri, dove la madre esprime un forte sentimento di espiazione contorcendosi come l'albero alla quale è impigliata con i capelli e come un ideale cordone ombelicale che si attorciglia sul tronco, nell' Angelo della vita , domina una serena atmosfera materna, la madre accosta il mento ai capelli del bambino e questi il viso al collo e la mano al seno della madre angelica. La maternità è un'immagine pacata, dove il bianco luminoso della pace e della purezza risalta, come la corteccia argentea della betulla, l'albero sul quale la madre è seduta. La betulla, albero sacro ai Druidi e ai Celti, è un albero cosmico e un albero della Vita, della saggezza e dell'energia vitale e fecondatrice. I lunghi capelli biondi fini, dorati scendono lungo la schiena della madre che assume una posizione di assoluto dominio della posizione materna, equilibrata e disposta in asse con il nodo del tronco in basso. Passato l'inverno, il senso della morte angosciante, ritorna la vita con la primavera, con la luce più calda e chiara. La betulla, albero tipico dell' Engadina, le cui valli montane erano ben note al pittore, è nel folcklore teutonico un simbolo di maternità e di protezione, con il suo legno nelle valli del nord italia e del Tirolo s costruivano le culle per i bambini perché si pensava che la corteccia avesse un potere magico in grado di scacciare gli spiriti maligni. In questa opera, la tecnica del divisionismo, cioè della giustapposizione di filamenti sottili di colori puri, viene ad assumere caratteristiche diverse, in quanto la linee sono meno sottili e più marcate. Se guardiamo il suolo sotto il tronco, le linee sono anche ondulate e contorte, con un colore multiplo, sabbia, grigio,seppia,marrone chiaro. Allo stesso modo si ispessiscono le linee che seguono i piegamenti del manto bianco della madre-angelo: il pittore gioca con i viraggi del bianco, che vanno dal bianco argento al bianco latte, al bianco luce, al bianco azzurrino, se ne serve per sviluppare tutta una forma di pieghettature alla base del ventre gonfio della madre e dunque per metterlo meglio in rilievo concentrando su di esso il massimo della luminosità. Il bianco, colore di purezza virginale, che rimanda al sacro femmineo della Vergine, finisce per unirsi, confondersi col cielo, con la massa delle nubi chiare. Proprio la luce come vita e come vitalità è il centro dell'interesse divisionista del pittore, egli qui è più attento al fluire fluettante di masse di luce-colore che si svolgono sulla figura in primo piano e che si uniscono all'ambiente circostante. Il meglio di questa tecnica applicata dal pittore alle immagini di figure con paesaggio è ancora di un tema legato alla maternità, Ne Le due madri , infatti, tutta la natura e con essa ed in rapporto ad essa che le figure umane ed animali, sono attraversate da queste linee ispessite, ingrossate, da queste matasse che si svolgono sul terreno, da questa unione di fili colorati che muovono e sconvolgono la natura, come muovono e sconvolgo l'animo umano.


                                  Giovanni Segantini, Le due madri, 1899-1900, Kunstmuseum di Chur

Le due figure accoppiate ( la madre ed il bambino; la pecora e l'agnello ), sono disposte a destra del dipinto e sono unite in una simbiosi, appunto di singola coppia : la madre e il bambino, la pecora-madre e l'agnello. Se ben guardiamo la madre indossa una cuffia simile a quella del bambino e l'agnello e la pecora, molto vicini fra di loro, assumono la stessa posizione. Il pittore qui dipinge a linee di colore accostate ( a matassa ) tanto i rilievi, quanto il muretto della strada, la strada stessa, quanto, infine, la madre e le due pecore. Vi è dunque un rapporto molto stretto fra le linee colorate e le figure; la composizione avviene proprio grazie alla giustapposizione di queste linee che animano la scena, la rendono mossa e coinvolgente. Sulla stessa linea è l'Amore alle fonti della Vita ( opera conosciuta anche come La Fontana della Giovinezza ). Qui la linea ondulante e serpentinata che sviluppa un discorso del colore mosso, del colore-vibrazione, è caratterizzata da aspetti cromatici primaverili ( il verde, il bruno, il bianco, l'azzurro ) che sviluppano tanto le figure umane o con immaginario umano ( i due giovani amanti e l'angelo ), in una sorta di amalgama filamentoso. Al centro della strada vediamo due giovani innamorati vestiti con abiti bianchi, virginali ( puri, che alludono anche alla purezza dei gigli ), stretti fra loro in un abbraccio tenero, giovanile; mentre posano i piedi nudi su di uno sterrato sconvolto dalle linee marroncine che si intrecciano fra loro, si seguono, si cercano, si sovrappongono, ad indicare un andamento nervoso, palpitante, espressione di un sentimento amoroso. Mentre i rossi rodoentri che vediamo dietro la coppia alludono al sentimento amoroso, unito ed eterno, gli zembri verdi, alludono alla speranza. Sulla sinistra, seduto ai piedi della fonte, è un angelo gigantesco, bianco, con grandi ali bianche, con un volto attento e uno sguardo quasi sospettoso rivolto verso i due giovani amanti che vede venire verso di lui. La fonte indica l'eterna giovinezza, alla quale l'angelo fa la guardia,




  
                       Giovanni Segantini, L'amore alla fonte della vita, 1896, Galleria d'Arte Moderna, Milano


La fontana della vita o della giovinezza, le cui sorgenti si credeva, nel Medioevo, che fossero localizzate nell'Eden, compare accanto all'angelo che la protegge con la sua grande ala. Verso di essa giungono i due giovani che sono a metà della strada. L'angelo li aspetta. I due giovani sembrano della stessa sostanza dell'angelo, bianchissimi loro, bianco l'angelo seduto, con una piccola capigliatura rossiccia e l'incarnato rosato delle braccia nude. La spiegazione al dipinto commissionato dal principe russo Jussopov, è dello stesso Segantini, che tiene a sottolineare l'importanza che nel dipinto assumono i colori filamentosi, il verde, il rossiccio, l'azzurrino, il bianco, L'atmosfera è dichiaratamente simbolista e vi è un netto scarto fra il paesaggio naturale, che è quello tradizionale dell' Engandina e le figure antropomorfe : il soprannaturale angelo e i due amanti che aspirano all'eternità del loro amore: queste figure sembrano del tutto estranee al paesaggio naturale, sembrano posticce, sovrapposte. Per quanto la composizione a sottili linee del divisionismo tendi ad amalgamare figure con paesaggio, non si ha lo stesso risultato del dipinto precedente, qui le figure sono stranianti, come se vi fossero senza esserci veramente se non come apparenze.
Per chiudere il discorso simbolista di Segantini attorno al tema dell'amore materno, dell'amore sentimentale come eternità, occorre sottolineare, attraverso un ulteriore dipinto, la raffigurazione della donna in sé, cioè svincolata dal suo essere madre ( cattiva o redenta che sia ) e amante. La figurazione di una donna nuda, china, che si specchia nelle acque di uno stagno, come figura allegorica della vanità. L'immagine riflessa nelle acque vede il sorgere di un serpente dalle forme mostruose, mitologico, come ammonimento.




                                   Giovanni Segantini, Vanità, 1897, Collezione privata, Milano


La donna si regge i fluenti capelli rossicci con una mano, mentre con l' altra si appoggia al muretto. Il serpente sbuca all'improvviso e la donna lo guarda stupita e impressionata. La tecnica divisionista qui gioca sul paesaggio naturale primaverile, con la fluente massa filamentosa dell'erba verde-giallino del fondo, mentre al centro del dipinto a fluire sono i capelli rossi della donna, ed in basso le linee azzurrine dell'acqua. L'intento è moralistico : la donna non può essere altro da ciò per la quale è destinata: la maternità, l'amore ( madre o amante ). L'allontanamento da questo destino non può che essere condannato. Il serpente ha una funzione diversa dall'immagine del teschio che nei dipinti seicenteschi era il memento che indicava la vanità delle cose terrene e l'eternità ed inevitabilità della morte: indica il pericolo; propone un alt, una meditazione, colpisce la stessa vanità libera e sfrontata della donna nuda. Ma di fatto la funzione è sempre quella dell'ammonimento, dell'intento moralistico, dell'attenzione verso le cose effimere. E' per questo che nella poetica simbolista di Segantini la donna è madre cattiva, redenta o buona ( ma sempre madre ), o amante giovane e vergine. Essa non può sfuggire al suo destino già segnato, non può sottrarsi all'essere donna come le regole del vivere moralistico borghese del pittore la vedono e la visualizzano. E ogni scarto e distanziamento da queste regole non può che essere punito dall'immaginario mitico e infernale. La donna di Segantini è un' Eva che non può vivere il suo Eden prima della consapevolezza del peccato, ma nemmeno la vita dopo che questo peccato si è manifestato; essa non ha nemmeno una vera corporeità. Il suo essere è quello incorporeo di un sogno, di un mito, di una proiezione inconscia, di un disperdersi nell'incubo del tradimento, della punizione, dell'espiazione, o di un fondersi nel piacere di una intima passione, di un perdersi nell'estasi di un affetto ritrovato o di un incamminarsi verso una felicità eterna alla fonte della giovinezza e della vita.

Bibliografia:

Giovanni Segantini su Wikipedia
Francesco Arcangeli, L'opera completa di Segantini, Milano, Rizzoli, 1973
Belli-Quinsac, Segantini, Dipinti e disegni, Milano, Skira, 1999
AA.VV. Giovanni Segantini, luce, colore, lontananza e infinito, Sondrio, 2003
Giovanni Segantini, Testo biografico, Trento, 1977
Karl Abraham, Giovanni Segantini: un saggio psicoanalitico, in Opere, vol 2, Milano, 1979
Patrizia Buffagni, Sogno e mito nell'opera di Giovanni Segantini, in www. Epa. Oszk.Hu    

giovedì 13 novembre 2014

la giungla in salotto




                                         

                                             LA GIUNGLA IN SALOTTO
    
                                         Henri Rousseau

                                            IL SOGNO




Henri Rousseau, Il sogno,  1910,  Museum  of Moderne Art, New York ( già coll. Rockfeller  )


" Su un divano 1830 è distesa una donna nuda. Tutt'intorno sorge una vegetazione tropicale abitata da scimmie e uccelli del paradiso mentre passano tranquilli un leone e una leonessa, un negro, figura misteriosa, suona il flauto. Dal dipinto scaturisce bellezza, non c'è dubbio. Credo proprio che quest'anno nessuno oserà ridere"
 Da una lettera di Guillaume Apollinaire a Rousseau del 14 marzo 1910.

"Questo fenomeno che voi chiamate pittura naive, non è altro che il sogno di un sogno, ricordatevelo. Allora perché non sognare?", Marcel Proust. 

La vita di Rousseau, il " Doganiere", come lo aveva soprannominato Jarry per via del suo lavoro al dazio prima di dedicarsi interamente alla pittura, non fu mai felice : vita di stenti, di difficoltà, soprattutto di incomprensioni critiche ; gli si rimproverava di non aver fatto alcuno studio di pittura, di mancanza di prospettiva e proporzionalità nelle sue opere, di colorismo eccessivo, innaturale, di ambientazioni favolistiche, irreali, false, puerili. I critici non lo avevano mai compreso sebbene importanti amici come Robert Delaunay, Guillaume Apolinaire e Pablo Picasso ne avessero lodato le capacità inventive. In genere, come lui stesso confessava, aveva provocato solo risa compiaciute, ironie, sfottò malcelati che lui faceva spesso finta di non capire. Una vita isolata, sorretta da una grande fantasia che gli permetteva di inventare straordinari paesaggi tropicali senza ma averne visto uno se non al Museo di Storia Naturale o alla grande Serra di Parigi. E' un po' come Salgari che descrive i paesaggi della Melanesia, senza esserci mai stato, solo con l'ausilio di libri di storia naturale e di atlanti. Solo alla fine della sua vita, poco prima di morire, dipinge quest grande quadro e lo invia al Salon ottenendone un lusinghiero successo. Era la sua aspirazione quella di poter dire di essere stato finalmente compreso. L' 11 marzo del 1910 scrive una lettera all'amico Apollinaire, soddisfatto per le prime testimonianze a suo favore:  " Ho mandato il mio grande quadro, tutti lo trovano bello. Penso che tu mostrerai il tuo talento letterario e mi vendicherai di tutti gli insulti e affronti ricevuti." . Nella lettera augura all'amico di essere finalmente anche lui compreso e gli lascia un messaggio di commiato, quello di vendicarsi, ma bonariamente, di tutte le umiliazioni subite. Nella lettera di risposta del poeta che leggiamo sopra, descrivendo il quadro viene messa in evidenza e in contrapposizione l'accoglienza del passato (l'ironia, le risate di scherno con l'evidenza di una indubitabile bellezza. ) . In un articolo successivo, commemorativo del pittore, Apollinaire pubblica i versi che il pittore aveva acclusi a commento del dipinto e che parlavano della modella, una sua amante polacca, alla quale aveva messo un nome esotico che compariva nello stesso dipinto sdraiata nuda su un divano 1830, in mezzo alla giungla tropicale:

         1 Yadwigha dans un beau rêve                           Yadwinga in un bel sonno si era addormentata.
2 S’étant endormie doucement                                     Dolcemente ascolta la musica suonata da un 
3 Entendait les sons d’une musette                                incantatore benpensante, mentre la luna
4 Dont jouait un charmeur bien pensant.                       riflette sui fiori, sugli alberi verdeggianti; le
5 Pendant que la lune reflète                                         belve, i serpenti, prestano l'orecchio al
6 Sur les fleuves, les arbres verdoyants,                        suono gioioso del suo strumento.
7 Les fauves serpents prêtent l’oreille 
8 Aux airs gais de l’instrument          
  

Il sogno del dipinto è il sogno della modella, un sogno fantasioso, il desiderio di essere altrove, di proiettarsi in un altro luogo, un paradiso terrestre dove essere un'Eva libera e avvolta dall'abbraccio della natura lussureggiante, madre viva e calda. Da nessuna parte Rousseau avrebbe mai potuto vedere una natura così, nemmeno illustrata su un libro di favole, né certo nella Serra di Parigi o al Museo di Storia naturale. Quella natura è la natura che vive nella mente, è la proiezione di un sogno femminile, di un desiderio di libertà e di amore sensuale. La posizione che Yadwingha assume è ben nota, è quella che vediamo nell' Olympia di Manet, realizzata nel 1863, anche la coppia donna nuda e personaggio di colore ( qui una serva là l'incantatore negro ) si ritrova in entrambi i dipinti. Ma in Manet la donna guarda lo spettatore e la serva guarda la donna, in Rousseau la donna ha lo sguardo rivolto di profilo a destra, disperso nella boscaglia, ma nella stessa zona dove è il serpente arancione che striscia in basso, mentre il negro guarda lo spettatore. L'intenzione di Rousseau è l'incantamento dello spettatore allo stesso modo di come il negro incantatore incanta col suono del suo strumento tutta la natura, mentre la donna che guarda nuda verso il serpente, non invita lo spettatore come Olympia, che si offre alla contemplazione e al desiderio, ma sembra scrutare ed indicare l'origine di questo incantamento sospeso e sognante: è come se si fosse svegliata in trance. La donna circondata dalla natura falso-tropicale, dall'atmosfera favolosa e incantata, richiama Eva nel Paradiso Terrestre. Rousseau aveva dipinto due figure di Eva, un'Eva bianca ed un' inquietante Eva nera. Guardiamo il primo dipinto, forse databile al 1905.


Rousseau il Doganiere: Eva riceve la mela
Henry Rousseau, Eva riceve la mela, 1904-5,  Kunsthalle, Amburg 
  
Se guardiamo i capelli di questa Eva in piedi e li mettiamo a confronto con quelli della donna sdraiata de Il sogno,notiamo un certo rapporto di somiglianza , allo stesso modo de Il sogno, malgrado la postura eretta della donna, la natura è molto più evidente, curata, ed espressa nella consistente varietà cromatica ( il viraggio del verde, che indica la vegetazione rigogliosa e perenne del locus amoenus, prevede ben più di 20 tonalità diverse che sovrapposte e giustapposte forniscono un senso di smarrimento incantato. Come il taglio di profilo della donna ne Il sogno è secco, legnoso, spigoloso, anche qui, dove meglio si vede ha le stesse caratteristiche; e come nel Il sogno lo sguardo della donna sembra essere disperso, lo è anche qui; vediamo anzi come Eva non fissa il serpente e come riceve la mela quasi automaticamente senza guardarlo. Il serpente ( principio maschile ), azzurro-rosa, attorcigliato attorno al fusto verde scuro con una mela arancione in bocca, sembra uscire dalla terra e precipitarsi  sulla mano aperta di Eva. Se inseriamo una direttrice diagonale che passi attraverso la testa de serpente e, magari, da suo occhio incattivito, vediamo come questa direttrice, passando per la mano, vada ad unirsi con la vulva di Eva, ad indicare, simbolicamente un collegamento con l'eros e il senso del peccato. Qui, insomma, è il serpente ad incattivirsi con Eva offrendoli la mela, mentre ne Il sogno la direttrice è orizzontale e il serpente arancione, che la donna non guarda ignorandolo, è quasi nascosto nella vegetazione; non se ne veda né il capo né la coda, ma solo il tubicino contorto del corpo. E' evidente che il richiamo all'episodio biblico ( la nudità della donna, il serpente, l'Eden ), presenta qui un valore semantico molto basso. C'è un'altro quadro di Rousseau che possiamo collegare a Il sogno. Si tratta dell'incantatrice di serpenti. Il dipinto venne commissionato al Doganiere dalla madre del pittore impressionista suo amico Robert Delaunay che era appena tornata dalle Indie.




Henry Rousseau, L' incantatrice di serpenti, 1907, Musée d'Orsay, Paris.


Qui l'incanto di questa natura favolosa, rappresentata al chiaro di luna, con i suoi contrasti di luce-ombra, è veramente straordinario. Eva, completamene in ombra ( se ne vedono solo gli occhi accesi ed inquietanti ), suona un flauto traverso incantando i serpenti, anche loro neri, che si sollevano da terra, spuntano dagli alberi, si attorcigliano, addirittura, attorno al collo dell'incantatrice. Eva non subisce la presenza del serpente tentatore, non viene incantata da lui, ma è lei che incanta i serpenti. Il colore scuro che unisce Eva ai serpenti è il colore del peccato, del male. Qui non sono mele, qui basta il richiamo essenziale: la donna, i serpenti. Il suono incantatore paralizza la stessa natura. Tutto sembra immobile ( tranne le leggere increspature sull'acqua ), tutto sembra in silenzio ed in ascolto. A sinistra un uccello del paradiso rosa col becco giallo che è pura invenzione di Rousseau : lo ricopiò da un libro illustrato con storie di fate per bambini. Un rosa straordinario che forma una macchia di colore morbida, strana, imprevedibile. La natura è curata in in modo veramente meticoloso, dipingendo foglia per foglia, stelo d'erba per stelo e giustapponendo le tonalità di colori dove il verde e le sua varietà cromatiche è dominante. Guardiamo l'incantatrice : è in piedi e rivolta verso lo spettatore, essa vorrebbe incantare anche noi che guardiamo il dipinto. Anche ne Il sogno il suonatore negro ha il compito di suonare una musica che incanta; anche qui siamo al chiaro di luna, siamo nella notte, che è principio femminile dominante. Qui la donna, illuminata dalla suggestiva luce lunare, non è molto a suo agio nella flora e nella fauna che la circonda. Ma il divano, sul quale ella si è addormentata per il suo viaggio onirico elemento logicamente estraneo, non viene respinto dalla vegetazione incantata, ma quasi assorbito in essa. La donna è entrata nel suo sogno, lo sta vivendo, smarrita, turbata. Il sogno della foresta è un'immagine onirica che rimanda alla ricerca, alla scoperta, del sé. E' un desiderio di fuga dalla solitudine, dall'abbandono, dal panico. Ma non è tanto il sogno di Yadwingha, è il sogno di Rousseau stesso e delle sue paure, della claustrofobia, dell'angoscia e della solitudine. Guardiamo la parte centrale del dipinto, cioè la parte che sta fra la donna nuda sdraiata a sinistra e il serpente arancione a destra, fra il femminile e il maschile : se figurativamente è la parte che bilancia gli opposti attraverso un triangolo equilatero  disposto di lato di fronte alla donna, che ha i due vertici in basso sul leone e la leonessa e il vertice in alto sul suonatore negro, è anche la parte che esalta e rafforza l'elemento femminile. Il suonatore negro ha un gonnellino con strisce marroni, rosse e gialle orizzontali sovrapposte: è un indumento femminile senza che, necessariamente, chi suona il flauto possa essere una donna, anzi sembra propriamente una figura maschile; anche il leone ( al di là del fatto che vi sia una leonessa ) ha un richiamo all'elemento femminile; infatti la simbologia dell'animale, nella civiltà egizia, greca e induista è associata alla femminilità. Sono infatti le dee ad essere rappresentate con questo simbolo, così in Egitto la dea Sekhnet ha la testa di leonessa; Ecate, nella mitologia greca è raffigurata con una testa leonessa, una di giumenta e una di cagna ( animali tutti femminili ). La leonessa, inoltre, è l'animale sacro alla dea-madre che simbolicamente indica la maternità e la sensualità; mentre il leone indica la forza, il coraggio e la regalità. Insomma il triangolo centrale è i triangolo simbolico della femminilità e il suono del flauto è un richiamo alla naturalezza selvaggia e libera di questa femminilità.

             Qui la donna, illuminata dalla suggestiva luce lunare, non è molto a suo agio nella flora e nella fauna che la circonda. Ma il divano, sul quale ella si è addormentata per il suo viaggio onirico elemento logicamente estraneo, non viene respinto dalla vegetazione incantata, ma quasi assorbito in essa. La donna è entrata nel suo sogno, lo sta vivendo, smarrita, turbata. Il sogno della foresta è un'immagine onirica che rimanda alla ricerca, alla scoperta, del sé. E' un desiderio di fuga dalla solitudine, dall'abbandono, dal panico. Ma non è tanto il sogno di Yadwingha, è il sogno di Rousseau stesso e delle sue paure, della claustrofobia, dell'angoscia e della solitudine. Guardiamo la parte centrale del dipinto, cioè la parte che sta fra la donna nuda sdraiata a sinistra e il serpente arancione a destra, fra il femminile e il maschile : se figurativamente è la parte che bilancia gli opposti attraverso un triangolo equilatero  disposto di lato di fronte alla donna, che ha i due vertici in basso sul leone e la leonessa e il vertice in alto sul suonatore negro, è anche la parte che esalta e rafforza l'elemento femminile. Il suonatore negro ha un gonnellino con strisce marroni, rosse e gialle orizzontali sovrapposte: è un indumento femminile senza che, necessariamente, chi suona il flauto possa essere una donna, anzi sembra propriamente una figura maschile; anche il leone ( al di là del fatto che vi sia una leonessa ) ha un richiamo all'elemento femminile; infatti la simbologia dell'animale, nella civiltà egizia, greca e induista è associata alla femminilità. Sono infatti le dee ad essere rappresentate con questo simbolo, così in Egitto la dea Sekhnet ha la testa di leonessa; Ecate, nella mitologia greca è raffigurata con una testa leonessa, una di giumenta e una di cagna ( animali tutti femminili ). La leonessa, inoltre, è l'animale sacro alla dea-madre che simbolicamente indica la maternità e la sensualità; mentre il leone indica la forza, il coraggio e la regalità. Insomma il triangolo centrale è i triangolo simbolico della femminilità e il suono del flauto è un richiamo alla naturalezza selvaggia, istintuale e libera di questa femminilità. 

                                                Particolare della parte centrale del dipinto " Il sogno " di Henry Rousseau

Guardiamo bene gli occhi aperti e allucinati degli animali e del negro : questo e il leone ci guardano, la leonessa è più rivolta verso la donna, ma non la guarda. Qui si sogna ad occhi aperti, anche la donna sogna allo stesso modo nel dipinto. Oltre alla impressionante visionarietà cromatica, la cura così meticolosa nel realizzare questi grandi fiori colorati ci porta addirittura ad immaginane l'odore dalle proprietà narcotizzanti e allucinatorie, come se si trattasse di grandi papaveri del sonno. Guardiamo ora a sinistra, dov'è la donna. La curva dell'anca e quella del polpaccio sono ripetute dalla voluta del divano; i fiori, con il loro viraggio cromatico dal celeste, all'azzurro, all'indaco, insieme al grigio e al rosa pallido, circondano la donna che è come una regina su un trono; sul fondo, fra gli alberi una fiabesca sagoma grigia di elefante e poi uccelli variopinti. La luce sgorga dal basso, misteriosa, strana, come se venisse su di riflesso dopo essere stata depositata e sparsa dalla luna. Illumina la donna di un velo morbido e caldo che esalta il suo incarnato, la sua sensualità; poi la luce si sparge attorno a lei, penetra fra  rami, fra il fogliame, esalta i colori nel suo flusso ascendente, sollecita il desiderio. Nel dipinto tutto sembra immobile, esseri umani, animali, vegetali; c'è quasi una paralisi generalizzata che segna un momento interminabile e irreale, uno spazio che non c'è, popolato di una vita da fiaba, d un immaginario infantile, spontaneo e primitivo ( il termine tecnico è naif ), dove tutto è armonia, pace, serenità e allora il suonatore negro ha il compito di suscitarla e di sottolinearla questa armonia anche al fruitore che guarda ammaliato, smarrito, ammirato.
            Poco dopo, a cinquantasei anni, il pittore rifiutato, deriso, beffato dai suoi stessi amici, moriva prendendosi una grande rivincita: ora tutti, dopo aver visto Il sogno, lo esaltavano come il portatore di un'aria nuova e fresca. Breton lo vide come un anticipatore del surrealismo e notava come il dipinto forniva uno straordinario sentimento del sacro e che un giorno lo avrebbero portato in processione per le strade come la Vergine di Cimabue.

Bibliografia:

Giovanni Artieri, L'opera completa di Rousseau il Doganiere, Rizzoli, Milano, 1966
Maurizia Tazantes, Rousseau il doganiere, Art e Dossier, Firenze, Giunti, 1994.
Cornelia Stabenow, Henry Rousseau, Tasche, berlin, 1992.

giovedì 6 novembre 2014

La luce di Dio




                                               

                                            LA LUCE DI DIO

                                       GEORGES DE LA TOUR

            IL PENTIMENTO DI SAN PIETRO E MADDALENA PENITENTE




Georges La Tour, Il pentimento di San Pietro, 1645Museum of Art, Cleveland

                                               

Irving Lavin, in Caravaggio, La Tour e la luce occulta di Dio, ha parlato della presenza della luce misteriosa, nascosta di dio che, nei dipinti de Caravaggio e La Tour, colpisce venendo dal nulla o manifestandosi attraverso una fonte naturale come immagine della salvezza. In questo dipinto la fonte di luce più evidente è di certo la lanterna ad olio posta in basso accanto al tavolo, proprio in corrispondenza del gallo che è tutto illuminato e che rimanda simbolicamente all'episodio evangelico quando Pietro, interrogato da un soldato romano dopo l'arresto di Gesù se conosceva o meno l'arrestato negò di conoscerlo e dopo ascoltò la profezia di Cristo che aveva detto che un gallo dopo la sua negazione, il suo tradimento, avrebbe cantato tre volte. Ma esiste un'altra fonte di luce, del tutto occulta, che non viene da una fonte naturale o artificiale, ma si manifesta in modo misterioso, nascosto illuminando il volto, pentito e quasi ingenuamente sorpreso di Pietro. Guardiamo questa luce calda che rileva le rughe del vecchio Santo, che evidenzia gli occhi e lo sguardo timido e timoroso, che illumina le mani strette una sull'altra, in un segno di remissione. Si tratta dunque di due luci. Una è la luce che viene dal basso ed è la luce terrena, una che viene dall'alto e che è invece la luce divina. Una è la luce che rivela l'umanità e la naturalità del personaggio, l'altra la sua debolezza di uomo e il suo pentimento. Una è la luce dei contrasti fisici dell' Illuminazione, che diventano anche contrasti simbolici : guardiamo le due gambe: la prima più vicina al lume è accesa di luce, la seconda è in gran parte in ombra: il bene e il male. Il bene che si ottiene col pentimento che caccia l'oscuro del tradimento. Guardiamo la lama di luce che dal piede sale brillando sullo stinco. Una seconda interpretazione è quella di Lavin che è tratta dalle osservazioni sulla luce divina di un trattatista cinquecentesco, Calasso. Dunque esiste una luce manifesta, che è quella prodotta dalla lampada ( la fonte ), ed una luce occulta, che non si vede, ed è la luce divina. La luce manifesta è quella introdotta dal demonio, che non fa conoscere la vita immortale, tieni fermi al peccato e allontana da dio. La luce occulta è quella della salvezza divina. La manifestazione di questi tipi di luce, occulta e manifesta, l'abbiamo nella Cattura di Cristo di Dublino, del Caravaggio.


Caravaggio, Cattura di Cristo, 1602,  National Gallery of Ireland, Dublin



Come possiamo vedere la fonte della luce ( la luce manifesta ) è quella della lanterna sorretta dal personaggio-testimone a destra ( un  autoritratto di Caravaggio ). Questa luce oltre a illuminare il volto del personaggio-testimone, illumina anche quella del soldato con la barba. E' la luce espressa in mezzo ai soldati, nel luogo del male, del peccato. Ma c'è un'altra luce che la luce occulta. La fonte qui è nascosta. La luce viene da fuori del quadro, diciamo dall'alto a sinistra, è una luce discendente che colpisce, con il suo riflesso, in quattro punti le armature dei soldati. Ma che soprattutto scopre esaltandole le espressioni di S. Giovanni urlante e i due volti stupendi di Cristo e di Giuda. Cristo ha un'espressione rassegnata, Giuda una tesa a mostrare la sua fedeltà-infedeltà: il bacio dell'apostolo-traditore è dato con impeto turbato ( la fronte corrugata ). La luce discendente colpisce anche le mani intrecciate di Cristo che sono un simbolo che rimanda alla Passione, alla Croce e alla Corona di Spine. Come colpisce la mano di Giuda che si stringe al braccio di Cristo e la stretta alla spalla coperta dalla veste rossa rimanda ancora alla Passione, come a dire che Giuda è lo strumento di cui dio si serve per il Sacrificio di suo figlio. L'irruzione di questa luce nascosta è l'evidenza manifesta della presenza di dio il quale, sostanza invisibile, si mostra attraverso la luce che è sostanza visibile. Ed è una presenza, quella di dio, che possiamo vedere solo con gli occhi della fede. E la luce, universalmente manifestazione del divino, della divinità, ci mostra ciò che non si può mostrare. La luce occulta o di dio, non solo è in antitesi al buio, alla manifestazione del caos e del male e del peccato, ma lo è anche in opposizione alla luce manifesta , a quella che si mostra nel luogo del male, fra i soldati catturanti che sono dietro Giuda e vicino a Cristo. Va anche detto che Cristo è definito nella ome "luce del mondo", quindi la luce che svela questo Cristo sofferente è anche la luce del Redentore, la luce che sarà in grado di redimere gli uomini, di purificarli dal Peccato Originale, di portarli alla Salvezza in dio padre. Vi è anche nel dipinto un uso teatrale della luce. Si può parlare qui non impropriamente di una ripresa delle modalità teatrali, quanto di una pittura di teatro, o meglio di una pittura teatralizzata . Caravaggio mette in scena, in pittura, l'episodio evangelico della cattura di Cristo. Tutto concorre con la luce rivelante, la luce che rivela l'azione e il reale: i gesti, l'azione, le espressioni, gli sguardi, il grido, le distanze simboliche ( quella di Giuda-Cristo, ad esempio, abolisce ogni confine di rispetto fra maestro e discepolo, è la distanza o, se vogliamo, la vicinanza del tradimento. Quella dei soldati è la distanza ridottissima della cattura ). Restiamo a Caravaggio e vediamo un altro dipinto dove si manifesta la luce occulta, la presenza di dio. Si tratta del S. Girolamo scrivente , databile fra la fine del 1605 e l' inizio del 1606.  

  
                                                   Caravaggio, San Gerolamo scrivente, 1606c., Galleria Borghese, Roma
Da dove provenga la luce non lo sappiamo. Dov'è la fonte? Sicuramente è esterna all'immagine centralizzata del Santo e del suo scrittoio. Possiamo pensare che ragionevolmente venga dall'angolo a sinistra in alto e si vada a stemperare alle spalle della veste di Girolamo intento alla realizzazione della Vulgata. E' una luce discendente diagonale, da sinistra verso destra. Guardiamo i riflessi più evidenti, quello sull'osso parietale del teschio e sulla testa calva di Girolamo: sono due riflessi fra loro collegati, li possiamo unire tracciando una linea quasi retta: il teschio è un memento mori  , ricorda al Santo non solo il carattere effimero della vita, ma anche e soprattutto quello della gloria. La luce poi scivola lungo l'asse verticale sinistro dal teschio al drappo bianco e cade sull'asse orizzontale sinistro del libro sul quale è poggiato simbolicamente il teschio che ricorda la morte e la caducità delle cose e della fama. Se osserviamo bene l'asse orizzontale e quello verticale, notiamo come essi, uniti, formano una croce; pertanto, la presenza del teschio sopra questa croce simbolica, indica la Passione di Cristo. La luce, a destra rivela il Santo; egli è avvolto nel manto rosso che è un indice, ancora della Passione, ma scopre anche la nudità e dunque la povertà di Girolamo. Sopra la testa del Santo vediamo un leggero indice di aureola ( si nutrono dei dubbi che non sia un'aggiunta posteriore, in quanto spesso i Santi in Caravaggio sono prima uomini e donne e poi presentano il carattere della divinità, ma non si può escludere ), che è ancora un simbolo di luce e che caratterizza la divinità o la santità. Anche se qui, Caravaggio, non rappresenta un disco, ma solo una leggera, sottile, linea circolare, quasi ad evidenziare che non si possa fare a meno della convenzione. In ambito giudaico-cristiano, la luce possiede sue proprie proprietà, non è propriamente un'emanazione fisica del sole come mostra la separazione fra luce e tenebre che è il primo atto di dio nella Creazione; dopo vengono il sole, la luna e le stelle, che sono luci aggiunte, lampade, luci manifeste, non hanno la proprietà della luce del mondo, che è luce del suo Creatore. Di La Tour abbiamo un altro dipinto che riguarda Pietro e si ricollega, anzi cronologicamente anticipa, il Pentimento, parliamo del Rinnegamento di Pietro , dove gli effetti di luce sono moltiplicati, anche in senso simbolico, tramite una scena che mostra due situazioni diverse comprese in una : a sinistra Pietro rinnega Cristo dopo che la donna lo ha indicato come colui che stava col Cristo; a destra, del tutto estranei a quanto accade dal'altra parte, i soldati giocano a dadi per spartirsi la veste di Cristo, indicando, secondo l'episodio evangelico, un riferimento alla crocifissione ( Gv. 19, 17-37 ).



                                      George La Tour, Rinnegamento di San Pietro, 1650, Musée de Beaux Arts, Nantes


Nel Rinnegamento, la donna a sinistra regge una candela. La candela è spesso frequente nelle opere "notturne " di La Tour. La sua presenza, nella notte, è dovuta alla necessità di fare luce da parte dei personaggi che agiscono nella scena dipinta. Ma la candela ha un determinato simbolismo e nell'ambito di una scena cristiana la candela simboleggia Cristo ( oltre che la presenza della fede e di Dio ). Secondo S. Ivo di Chartres, la cera pura di api con la quale è fatta la candela rappresenta la carne virginale del Santo Bambino; mentre per S. Anselmo, nelle sue Narrazioni su Luca, la candela è indice simbolico di Cristo e della sua costituzione : la cera è la sua carne virginale, lo stoppino è la sua santa anima, la fiamma è la presenza della sua divinità. Non pochi i riferimenti evangelici , invece, riguardo alla luce : " io sono la luce del mondo: chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma vivrà la luce della vita " ( Gv. 8,12 ) e ancora" Dio è luce, in lui non c'è tenebra alcuna"(Gv.1,5)e con riferimento agli apostoli: " Voi siete la luce del mondo...Così splende la luce davanti agli uomini" ( Mt. 5, 14-16 ). L'accensione del cero pasquale accanto all'altare simboleggia la luce di Cristo, luce del mondo e luce di vita, del Cristo risorto alla luce e che indica la via della verità nelle forze oscure del peccato e del male. Naturalmente esistono anche significati esoterici ed alchemici, pratiche di magia in cui la candela è fondamentale. La festa della Candelora, è una festa di purificazione, in cui le candele accese, tengono lontane, con il simbolo della fiamma, della luce, le forze oscure del male. Guardiamo l' Adorazione dei Pastori , del 1644.     

  
            
                                   Georges La Tour, Adorazione dei pastori, 1645, Musée du Louvre, Paris

La candela che Giuseppe tiene in mano a destra ha la fiamma sottile ed alta poco sopra la testa del Bambino, una candela che emana una luce di verità, totalizzante e significante che illumina volti e corpi, il vestito rosso della Vergine che rimanda alla Passione e la fasciatura bianca del Bambino che indica la purezza ( nato da una Vergine, ma anche puro e sacro ). La luce-verità è fondamentale in questo coinvolgimento semantico e prossemico ( di significato e di vicinanza ). Ed è anche una luce-testimone della presenza di una dio di luce ( guardiamo come il Bambino sembra quasi concentrare su di sé una luce chiara, raddoppiata dalla fasciatura bianca ). La candela appare spesso anche nella seria della Maddalena penitente , che ha come primo riferimento la Maddalena penitente Doria, di Palazzo Doria Pamphilj di Caravaggio.



Georges de La Tour, Maddalena penitente ( o Maddalena con la candela ardente ), 1635-40, Musée du Louvre, Paris  

Caravaggio, Maddalena penitente, 1596c. Galleria di Palazzo Pamphilj, Roma

Nella Maddalena penitente di Caravaggio, non vi è una luce manifesta diretta, non notiamo alcuna fonte interna e la luce che si staglia sulla parete in alto a destra viene da fuori, da una finestra, ma sembra non interessare il soggetto. Questo invece è interessato da una luce che viene dall'alto, una luce occulta, una luce che è simbolo di redenzione, che rischiara il pentimento della donna che presenta i simboli della vanità della sua vita precedente di prostituta ( i gioielli gettati in terra e spezzati come simbolo di rifiuto di quella stessa vanità ) e dei rapporti col Cristo, come la boccia di vetro trasparente ( che riflette la luce occulta ad indicare il richiamo evangelico ) che contiene l'olio profumato con il quale la Maddalena aveva unto i piedi di Cristo prima di unirsi al suo seguito ( un simbolo cristologico è forse anche la coppa del graal che conteneva il sangue di Cristo dipinta sulla veste riccamente decorata in basso ). Nel caso di La Tour, che aveva potuto forse vedere il dipinto nella collezione di palazzo Pamphilj a Roma, la luce manifesta è invece visibile. Ma guardiamola bene. Si tratta di una candela collocata dentro un vasetto di vetro trasparente che mostra la cera oramai liquefatta e, dunque, la fiamma arde solo grazie allo stoppino che continua ad essere acceso. La fiamma è alta e dritta verso l'alto dove si solleva un fumo grigio-bruno che si avvolge e si arriccia. La luce manifesta , secondo quello che ne dice il Capasso citato dal Lavin è una manifestazione del male. Qui però, propriamente, la candela è un simbolo della consumazione del tempo ( un tempo quasi del tutto consumato ) e la fiamma dritta è un simbolo, se vogliamo, di un male forte e resistente, quasi diabolico, destinato a consumarsi di fronte all'evidenza della redenzione. La candela che si consuma e la fiamma destinata ad esaurirsi è anche un simbolo della ineluttabilità della morte e infatti la luce s riflette sul cranio che sul grembo della Maddalena, lo illumina in parte sulla parte frontale e quel cranio è un memento mori, ricordati che devi morire. Che poi il cranio simbolo di morte sia posto accanto al ventre e in mezzo alle gambe, se vogliamo forzare l'interpretazione, può anche essere un'indicazione simbolica del luogo del vecchio peccato. Vi sono simboli di vanità ( il libro ), ma soprattutto i simboli del pentimento : sul tavolo vediamo la frusta arrotolata sul fusto che indica la fustigazione cui la donna si era sottoposta, intorno al ventre  una corda che può essere sia indicazione simbolica della punizione ( la corda di un patibolo, o una corda-legaccio di un condannato ), ma può anche indicare la presenza di un cilicio. E' importante vedere come questo simbolo della corda cinga un ventre leggermente rigonfio che, secondo lo stilema rinascimentale tipico della femminilità indica la fecondità, come simbolo di vita prosperosa, ma qui come simbolo di nuova vita, di ri-nascita in Cristo dopo la morte del peccato. S tratta quindi dell'unione di punizione-morte- nuova vita. Anche il petto scoperto nella parte superiore e i capelli lunghi e lisci neri sono simboli, certamente, del peccato; evidenziano la vita passata di una donna di vita. E in questo senso lo sono anche i piedi nudi completamente in ombra, se non indicano anche l'origine della redenzione o l'uscita dal peccato alludendo ai piedi nudi di Cristo unti dalla Maddalena dopo aver incontrato il Redentore. La veste rossa contrasta con la camicia bianca : il rosso indica la Passione di Cristo ( la Maddalena fu sotto la Croce e fu la prima ad andare al sepolcro e a vederlo vuoto dopo la Resurrezione; il bianco indica la nuova purezza dopo la Redenzione in Cristo della peccatrice. ).
               In un'altra opera del ciclo della Maddalena penitente, in cui l'artista usa la stessa modella, La Tour la luce manifesta si raddoppia nel senso che la candela è riflessa in uno specchio e dunque si vede un'altra luce e un'altra candela. Si tratta di una doppia manifestazione con caratteristiche simboliche antitetiche: la luce manifesta vera e la luce manifesta falsa ( o riflessa ). Lo specchio, simbolo di vanità secondo il riferimento biblico del tutto è vanità, espresso nel libro del Qohelet  . Lo specchio è immagine falsa della verità, è strumento del diavolo. Se guardiamo bene la candela ( una mezza candela, quindi una vita già consumata per metà ) si riflette in uno specchio inquadrato da una cornice apparentemente preziosa che mostra un fondo nero, cioè il riflesso di una finestra oscurata o di una parete non illuminata . un chiaro simbolo del peccato e del male, l'unico che può associarsi con la luce falsa .


 
                        
                    Georges de La Tour, Maddalena penitente, 1645c, Metropolitan Museum of Art, New York    

La Maddalena è vista quasi di profilo. La luce le rischiara la camicia bianca aperta che è simbolo del passato peccato di meretricio, le mani intrecciate nell'atto della preghiera poste sopra il teschio lucido con la luce riflessa sulla fronte in una sorta di collegamento simbolico con la luce manifesta e con lo specchio, la veste rossa simbolo di Passione che scivola sino a  piedi coprendoli come nell'opera di Caravaggio. Da notare che qui il ventre è ancora più gonfio, ad indicare simbolicamente la nascita della nuova vita . Ancora la luce illumina sul tavolo i gioielli simboli di vanità in collegamento simbolico con lo specchio e la cornice.  I gioielli sul tavolino sono intatti e sono nella zona che indica simbolicamente la vanità; in terra, invece, come nell'opera di Caravaggio sono spezzati e sono n rapporto con la zona della redenzione. Da notare che il teschio non è vero, ma è una realizzazione plastica in pietra o in avorio o in alabastro, levigato e lavorato. E' un simbolo che si collega alla luce manifesta falsa. Pur continuando a significare il memento mori e il trascorrere del tempo. Il pittore, memore della lezione di Caravaggio e di Gherardo delle Notti, fa uno studio attento degli effetti della fonte di luce interna. Il dipinto evidenzia la sua distribuzione, riflessione, angolazione, in tutti i luoghi del dipinto, mostra come l'artista conosca alla perfezione le leggi dell'ottica e la teoria dei contrasti e delle ombre, soprattutto come sia in grado di realizzare una eccezionale semantica della luce come svelamento del processo di Redenzione e Salvazione.

Bibliografia:

Irving lavin, Caravaggio. La Tour. La luce occulta di dio, Saggiatore, Milano, 2000
Georges Dumezil de La Tour, L'opera completa di la Tour, Milano, Rizzoli, 1973
Gilbet Durand, Le strutture antropologiche dell'immaginario, Bari, dedalo, 1972
James Hall, Dizionario dei simboli in arte, Longanesi, Milano, 2005
Edouard Urech, Dizionario dei simboli cristiani, Arkeios, Roma, 2004
Hans Biedermann, Simboli, Garzanti, Milano, 2005.

  

lunedì 20 ottobre 2014

I voli dell'anima


                                                     I VOLI DELL'ANIMA 

                                           MARC CHAGALL

" Mia soltanto è la patria della mia anima. Vi posso entrare senza passaporto e mi sento a casa; essa vede la mia tristezza e la mia solitudine, ma non vi sono case, furono distrutte durante la mia infanzia, i loro inquilini volano ora nell'aria in cerca di una casa, vivono nella mia anima"  Marc Chagalll, Autobiografia ( Ma vie, 1922 )

" Mio padre aveva gli occhi azzurri, ma le sue mani erano piene di calli. Osservai le mie mani. Erano troppo delicate...dovevo cercare un'altra occupazione che non mi costringesse a voltare le spalle al cielo e alle stelle e che mi consentisse di trovare il senso della mia vita", Marc Chagall, Autobiografia, Ma vie, 1922 

" Si ama veramente soltanto quello che si rischia di perdere", Leone Tolstoj 



Marc Chagall, La passeggiata, 1917.18, Museo di Stato Russo, San Pietroburgo 
«Non muoverti, resta dove sei…».Non riesco a stare ferma. Ti sei gettato sulla tela che vibra sotto la tua mano. Intingi i pennelli. Il rosso, il blu, il bianco, il nero schizzano. Mi trascini nei fiotti di colore. Di colpo mi stacchi da terra, mentre tu prendi lo slancio con un piede, come se ti sentissi troppo stretto in questa piccola stanza. Ti innalzi, ti stiri, voli fino al soffitto. La tua testa si rovescia all’indietro e fai girare la mia. Mi sfiori l’orecchio e mormori…” Belle Ronselfeld, moglie di Marc Chagall, Memorie ( Come fiamma che brucia, Roma, Donzelli, 2012 )


Marc Chagall, Il Compleanno, 1915, Moma, New York

" Non voglio essere simile agli altri, voglio vedere un mondo nuovo" Marc Chagall






                                                  Marc Chagall, Sopra la città, 1914-18,  Galleria di Stato Tretjakov, Mosca



Nel suo eccezionale Lezioni Americane, a proposito della Leggerezza, Italo Calvino cita una battuta del Romeo e Giulietta di Shakespeare, quando Mercuzio entra in scena per contraddire Romeo che mesto ha poco prima affermato di sprofondare sotto un peso d'amore : " Tu sei innamorato: fatti prestare le ali da Cupido e levati più alto di un salto". L'amore è leggerezza, chi ama sembra quasi superare la forza di gravità, danzare, innalzarsi, levarsi in alto con un salto. Mercuzio definisce il suo modo di interpretare uno stato d'animo e lo rappresenta all'angosciato Romeo. L'amore è sempre un distacco dalle cose del mondo, dagli altri, dalla terra; un proiettarsi nel sogno, una fuga in alto, lontano. Marc è un giovane pittore ebreo squattrinato in cerca di fortuna; la sua famiglia di professione rigorosa hassimita, è povera e il padre non vede d buon occhio le scelte del figlio che pure ha fatto studiare in una scuola russa e non ebraica. La religione che professa la famiglia, se pure meno rigorosa del giudaismo ortodosso e volta al riconoscimento ottimistico delle cose quotidiane e di dio in esse, non concepisce la figurazione, la riproduzione delle immagini del mondo e per nulla quelle del sacro.Ma Marc ha spirito laico, voglia di vivere e di imparare. Ha 25 anni e progetta di allontanarsi dalla sua città natale Vitesbek, in Bielorussia occidentale, dove è nato nel 1887, dove pure ha vissuto una felice infanzia rivissuta pienamente nei suoi sogni di adulto; vuole recarsi a Parigi, la metropoli della modernità, della cultura, della grande arte. Intanto riesce a trasferirsi a Pietrogrado e a frequentare la Scuola di belle arti dove impara a disegnare e a dipingere. Nel 1909 conosce Belle Ronsfeld, anch'essa è di Vitesbek, ma di altro ambiente e disponibilità economica. Figlia di una ricca famiglia di commercianti ebrei di oro e gioielli che hanno botteghe sulle rive del fiume. Belle ha 15 anni,  bellissima, il pittore se innamora, ricambiato, immediatamente. Con lei si reca a Parigi nel 1913 dove frequenta la comunità artistica di Montparnasse, gli impressionisti, i fauves, i cubisti; conosce Apollinaire, Léger e il cubista orfico Delaunay, da cui ricava uno stile analitico cubista che si completa con la policromia armonica e musicale delle forme unite ai colori. Nel 1914 ritorna a Vitesbek; l'anno successivo sposa l'amatissima Belle con la quale resterà sino al 1946 quando la donna morirà a seguito di una infezione virale. L'amore come volo, come leggerezza, come felicità assoluta è cantato nelle sue tavole dai colori chiari e caldi. L'amore come espressione intensa dell'anima, come vibrazione di sensazioni uniche che possono essere sentite soltanto dalla coppia distaccata ed estranea al mondo. In Passeggiata una diagonale unisce i due amanti, in alto la prima metà è il braccio della donna vestita di rosa, in basso la seconda metà è il braccio dell'uomo vestito di nero. A fianco a questa diagonale contrastante ma unita e doppia, due perpendicolari, una in alto è il braccio in rosa di Belle che sembra quasi sfuggire fuori del dipinto; in basso il braccio di Marc che punta verso il basso : il cielo e la terra. Due direzioni che si uniscono nello stato intimo di un'anima sola. La città è Vitesbek, tutta in verde, il colore della speranza, della giovinezza, della saggezza. Edifici, campi, il letto del fiume, ricavati dalle forme geometriche armonizzate nell'unica tinta, sono espressione non di ciò che è, non di quello che si vede, sono espressione di uno stato d'animo. La tovaglia rossa della dejeneur, con i fiori, la bottiglia, il bicchiere, non hanno nulla di realistico, di impressionistico, sono le forme, il colore di un momento intimo, di incontro già vissuto. Il cielo sopra la città è bianco latte, un cielo russo, un cielo freddo, ma è come se il freddo non si sentisse, come se fosse estraneo e lontano rispetto alla coppia. Degli edifici che vediamo solo uno non è verde, ma rosa, ha lo stesso colore anche se più tenue dell'abito di Belle. è un edificio sacro, indica spiritualità. Un luogo dell'anima. Il Compleanno  mostra un attimo d'intimità : Belle ha comprato dei fiori per celebrare il compleanno dell'amato, li sta sistemando quando ecco, come un miracolo, come in un sogno, il suo amante si libra in aria e compie un gesto acrobatico e impossibile per baciare l'amata. Quando si ama nulla diventa impossibile, tutto è praticabile, anche il superamento dei limiti gravitazionali, anche le improbabili contorsioni che Chagall aveva visto al circo o nelle fiere del paese. La coppia si trova in uno spazio senza confini in  un tempo senza limiti. Il colore del pavimento non è separato da quello della parete, il tappeto che dovrebbe stare in orizzontale è in verticale. I due vorrebbero oltrepassare i limiti angusti della stanza, aprirsi all'esterno, volare fuori e volteggiare sulla città, ma il bacio esaurisce altri desideri, completa ed unisce e allora non vi è altro. Sopra la città la coppia unita e abbracciata vola sopra gli edifici, nel cielo bianco. In basso le case grigie, i giardini verdi, la sinagoga violacea, le strade e le piazzette vuote. Non ci sono anche qui persone: la coppia basta a se stessa, vive in se stessa; il prossimo diventa superfluo. Il verde di lui si accoppia all'azzurrino di lei. L'unità degli opposti, l'unità dell'amore. 
                Nel folklore russo, nella fiaba popolare dei racconti di fate e di magia, studiate da Vladmir Propp e pubblicate da Afanasev, il volo è spesso presente. L'eroe attraversa l'aria, viaggia attraverso lo spazio; riceve il dono di un oggetto volante dal'aiutante magico, se ne serve per sorvolare a città. Il tappeto volante, ancora prima che nelle Mille e una notte , che Chagall illustrò a New York, è presente nell'antico folklore russo e dunque Chagall ne aveva una informazione di antica data. La funzione del volo, che è una delle funzioni essenziali della Morfologia della Fiaba studiata da Propp, è una funzione ricorrente in molte fiabe: grazie ad essa l'eroe sposa la principessa ( in una fiaba chi riesce a costruire un vascello volante sposerà la figlia del re ) , può fuggire con la donna amata, può unirsi a lei, può risolvere una situazione, può contemplare la città dall'alto come Aladino a Bagdad. Un personaggio volante tipico del folklore russo è la strega Baba Yagà che vola in un mortaio usando il pestello come remo-timone; ora cattiva, ora buona, ora spauracchio dei bambini, ora loro amica, ha qualche parentela con la befana e con la strega occidentale. Nelle fiabe russe è molto presente ed è un riferimento favolistico per l'immagine della donna in volo.
                Oltre alla verticalizzazione, allo slancio, al volo, ha importanza, nella poetica figurativa di Chagall l'inversione, il sottosopra, l rovesciamento. Nei dipinti gli animali, gli uomini, lo stesso pittore, gli oggetti, gli edifici, i musicisti, le donne, i rabbini, sono talvolta mostrati rovesciati o in pose di ribaltamento e di contorsione che sono tipiche del mondo circense, che Chagall aveva appassionatamente frequentato come spettatore da bambino. Il mondo rovesciato è un cambio di prospettiva, è un guardare con un altro sguardo, meno oggettivo ma più interiore ed intimo. Il volo e il rovesciamento sono aspetti che ritornano in molti dipinti e mostrano un altro mondo, quello che si vede con gli occhi della mente e dell'anima: il mondo alterato nelle forme e nei colori , in ciò che si vede e in ciò che si sente. All'arte, per Chagall, non interessano le convenzioni, non la realtà così come si vede, ma interessa andare a guardare oltre l'apparenza, scrutare ciò che ad un primo momento non si vede, guardare nell'anima. E' possibile che Chagall abbia guardato alle carte da gioco francesi, all'immagine della figura doppia e rovesciata ( Il Re, la Regina, il Fante ), ma è possibile che si sia rifatto anche all'arte dei tarocchi, o meglio alla loro raffigurazione popolare ( ma anche artistica; conosciamo i Tarocchi dipinti, da Mantegna ). Ad esempio a certe immagini di sotto in su come l'Appeso, che guarda il mondo dall'alto in basso,  sorretto dalla corda che lo stringe ai piedi. Il mondo è dunque quello che si vede in equilibrio precario, a rovescio, in una condizione di perenne precarietà. E l'uomo sembra essere sopra i tetti della città e il suo piegarsi all'indietro con il peso della testa che potrebbe precipitare diventa una curvatura impossibile e possibile allo stesso tempo : è come se a sorreggerlo fossero l'anima e lo sguardo che gli occhi spalancati uniscono al cielo ed alle stelle. L'uomo, forse un autoritratto dello stesso pittore, si liberato, in quella posizione del peso corporeo, del peso delle convenzioni, del peso della sua interiorità. Il rovesciamento non è solo un ribaltamento di prospettive e di sensazioni, è la scoperta di un nuovo modo di vedere e di sentire. Nel dipinto anche la firma è capovolta cosicché ci viene il dubbio s quale possa essere la disposizione giusta del dipinto, ma anche la posizione giusta del mondo, quale sia la realtà e quale l'apparenza. Il mistero dell'uomo bianco e del cielo blu è il mistero stesso dell'arte, di un'arte che si apre al surrealismo, come del resto aveva intuito André Breton. Ma che nonostante questa apertura resta se stessa, unica e inimitabile.     


    
                                 
                              Marc Chagall, Il pittore con testa rovesciata,Museo nazionale Marc Chaall, Nizza  


Volo e rovesciamento sono presenti, come metafore oniriche, in quei dipinti che rievocano l'infanzia. L'infanzia del pittore è stata felice, ricca di scoperte e di sensazioni a contatto con il mondo piccolo, contadino della sua città dove tutto è vario, semplice, colorato, sentito come se apparisse per la prima volta e vissuto in un insieme apparentemente disordinato di forme, geometriche, colori brillanti, sensazioni vibranti. Tutto è in movimento senza avere una direzione, un senso: animali che volano, oggetti rovesciati, tetti sottosopra, strade che si intrecciano e si perdono che non hanno un piano, una forma, una direzione, vallate e colline viola, marroni, rosse,blu. Ha scritto Chagall che siamo la nostra infanzia, che tutto ha origine e fine in quella: scoprire l'infanzia è dunque scoprire noi stessi, ciò che siamo stati e ciò che siamo. L'immaginario dell'infanzia non è dunque cosa che possiamo ri-vedere, ma che possiamo solo ri-viverla in noi, attraverso il ricordo, la rimembranza, come diceva Leopardi.


                         
                                                  Marc Chagall, Io e il mio villaggio, 1911, Moma, New York 
                         
Io e il mio villaggio è realizzata durante il primo periodo parigino e risente de cubismo orfico di Delaunay, la divisione degli spazi colorati segue un criterio di armonia, di accordo geometrico-musicale. Due grandi profili si guardano il pittore col viso verde a destra, una mucca bianca, rosata e azzurra a sinistra. Il pittore guarda stupito il proprio passato e lo vede come se lo vivesse in quel momento. Dentro la testa della mucca una donna munge una mucca: un ricordo dentro un ricordo. Sul fondo edifici ritti e rovesciati, con la punta del tetto che tocca la terra e de contadini, lui con la zappa sulla spalla è ritto, lei con la gonna turchese è rovesciata. Al centro mezzelune, mezzi cerchi, onde di vari viraggi dal rosso al bianco sono una strada e na striscia immaginaria di passato, in basso il triangolo contiene la pianta che si solleva sino alla bocca della mucca che potrebbe mangiarla. Una visione onirica proiettata in un luogo che non ha confini di tempo e di spazio: un luogo dell'anima. L'infanzia passata al suo paese ritorna attraverso i ricordi sparsi e non concatenati delle botteghe, del fiume, delle feste, delle ricorrenze, delle funzioni religiose, delle nascite, dei funerali, dei violinisti, dei bambini, de rabbini, degli animali. Un intersecarsi di ricordi che non hanno fine, che continuano ad agitare allegramente la mente del pittore adulto: abbiamo tutti origine dalla nostra infanzia.
Un'altra grande fonte di ispirazione per Chagall è la Bibbia, il grande codice figurativo e letterario della civiltà occidentale. Tutte le epoche cristiane hanno raffigurato la Bibbia, si sono specchiate in essa. I motivi della Bibbia sono diventati i temi di riflessione preferenziali, le interrogazioni della coscienza, la misura dell'esistenza e della bontà di dio nel mondo. Di Bibbia, quella in lingua yidish, si è sempre parlato in casa Chagall e da bambino e da adolescente il pittore aveva imparato a conoscerla piuttosto ampiamente e intensamente.  Ha scritto Mircea Eliade che " Chagall ha riscoperto il mistero e il carattere sacro della natura, primitivo e materno: un luogo in cui un uomo e un animale vivono insieme, in pace, sotto l'occhio di dio e sotto una grande luna, come era al momento della creazione."  Ed infatti la raffigurazione biblica espressa da Chagall ( anche se in genere vale per tutta la sua opera ) è proprio in questa immagine primitiva, materna e sacra dove si manifesta dio. Come abbiamo detto la religione ebraica di tipo hassisita, professata dal pittore, è una religione aperta alla comprensione del popolo e la lettura biblica non ha bisogno di interpreti rabbinici, bensì di una lettura semplice ed immediata della gente comune.  Un detto hussisita dice: "ciò che è determinante non è che dio è, ma tutto ciò che è, è insito in dio". Tutto ciò che ci circonda, che vive intorno, a noi è espressione di dio. Per rappresentare la Bibbia Chagall ha tenuto bene a mente questi aspetti e li ha applicati quando ricevette l'incarico di illustrarla dal mercante Ambroise Vallard. Si trattava soprattutto di attingere ad una tavolozza ricca di tutti i colori possibili che potessero esprimere sensazioni interiori. Ha scritto lo stesso pittore che non ha illustrato la Bibbia leggendola, ma sognandola. Le figurazioni, dunque, non sono illustrazioni delle storie, ma sono immagini che vengono dal suo mondo onirico. Nella rappresentazione dei soggetti biblici ( oggi sono conservati al Museo Nazionale di Nizza ), il pittore si è rifatto anche alla propria infanzia, sognata e colorata; in questo modo la Bibbia non è un libro chiuso, per iniziati o per lettori colti, ma è il libro di tutti e raggiunge un significato universale nella sua semplicità di comprensione e nella sua rivisitazione sognata.
              Il volo, l'idea del volo, il sogno del volo, che spesso abbiamo visto così presente nell'opera del pittore, ritorna anche nella Bibbia: Mosè, per ricevere le tavole dei X Comandamenti sul Monte Sinai sembra innalzarsi in volo verso dio. E questo rapporto dell'uomo con dio è un rapporto che si ha al di là della concretezza e della pesantezza della realtà: è la leggerezza ( una leggerezza colorata ) che unisce al trascendente.

               
                                      Marc Chagall, Mosé riceve i X Comandamenti da dio, Museo Nazionale, Nizza



Dei libri della Bibbia Chagall  riserva particolare attenzione al Cantico dei Cantici , libro dell'amore passionale ed erotico, ricco di metafore figurali che non potevano non colpire il pittore. Le tavole sono realizzate dopo la morte dell'amata Belle e il nuovo amore molto più giovane di lui che lo riconciliano con la vita e gli fanno superare il nero periodo di depressione. A favorire la riscoperta della vita, della felicità e dell'amore è anche la fine della Seconda Guerra Mondiale, l'entusiasmo per la ricostruzione. Nella tavola dominata dal colore femminile per eccellenza, il rosa, ma anche carico di sensualità ancor più accesa dal morbida nudità, la Sposa è adagiata nuda in un letto di foglie ricavato dalla palma, simbolo di purezza, che si è piegata per lei. Da un lato è il re David con ali che aleggia sopra il trono di re Salomone e protegge la Sposa.

   Chagall - Cantico dei Cantici II (Song of Songs II)
                           Marc Chagall, Il Cantico dei Cantici, c. 1954, Museo Nazionale Marc Chagall, Nizza.


In basso la città di Gerusalemme che è quasi coperta, in  alto dalla palma che, però, non ha alcun rapporto con la città, ma è solo in rapporto alla Sposa che sembra addormentata in un sogno felice. Proprio sotto di lei lo Sposo ( anche il solo volto dello Sposo ) che guarda lontano, ma oltre la Sposa, quasi estraneo a lei o, forse, impossibilitato a raggiungerla. Forse Chagall nella Sposa ha raffigurato Belle, la moglie amata e morta che ora può solo sognare, anche ad occhi aperti, senza poterla più raggiungere. Ma soprattutto la tavola è un'illustrazione di un sogno d'amore passionale, vero ed intenso, mosso da queste ondate di rosa che si muovono sinuose intorno al corpo nudo e sovrastano la città santa  ed i suoi simboli. 
                   Ma torniamo al tema del volo. Due personaggi singoli accendono la fantasia di Chagall, entrambi direttamente connaturati alla tradizione ebraica: l'ebreo errante e il violinista. L'ebreo errante è ripreso da una leggenda medievale cristiana: quando Gesù si caricò la croce sulle spalla e si avviò al Monte Calvario, incontrò sul suo cammino la bottega di un ciabattino ebreo che appena lo vide, senza riconoscerlo ( o senza sapere chi fosse, se non un comune condannato ) lo invitò ad andare più svelto. Per questo motivo il ciabattino, per non aver aiutato Cristo e per averlo umiliato, fu costretto a vagare in eterno ( almeno sino al ritorno di Cristo sulla terra ), da una terra all'altra senza potersi mai fermare in nessun luogo, scacciato da tutti. Da una parte la leggenda era usata dalla propaganda cattolica per additare gli Ebrei quali persecutori di Cristo e quindi degni di essere allontanati, rifiutati, cacciati; dall'altra invece venne usata dalla propaganda ebraica come simbolo della persecuzione contro gli Ebrei e della Diaspora. Chagall ha immaginato in due modi l'ebreo errante, in una è visto come un pellegrino, in un'altra è un'ombra che vola sopra la città che nessuno vede, ma che è presente con i suoi occhi aperti e profondi che trascendono la realtà circostante.




Marc Chagall, Sopra Vitesbk, 1914, Art Gallery of Ontario, Toronto.


La città è ammantata di neve, vuota, silenziosa. I campi di neve che contemplano anche degli usci bui nella muraglia, quasi degli ingressi occulti, sono formati da un insieme di composizioni geometriche, rettangoli, mezzi cerchi, trapezi, triangoli che delineano una strana struttura bianca e grigia che non definisce uno spazio determinato, ma alterato, strano, irreale. L'unica cosa reale, sopra ai capi è la staccionata verde e il muro bruno, da cui escono alberi carichi di neve. Nella zona della geometria fantasmagorica, nulla può essere retto, ordinato, nemmeno il lampione che è fortemente inclinato: ogni cosa qui dà il senso della precarietà, della provvisorietà, dell'instabilità. Alle spalle della staccionata si erge gigantesca e fiabesca la sinagoga formata da mure alte gialle, ocra,marroncine e sormontate da cupole a specchio viola; si vedono anche pinnacoli bruno e sfere violacee. Non vi è rispetto delle proporzioni l'edificio a sinistra, la casa geometricamente e realisticamente più delineata e che indica la tranquillità domestica è alta quasi la metà della sinagoga; la città ha delle casette da paese dei balocchi, da paese fatato con le cupoline azzurre e verdi che si distacca dietro i tetti in primo piano imbiancati. A distaccare il colore bianco del tetto e del campo è la parete rossa della casa al centro che non ha una chiara disposizione formale ma sembra come una giustapposizione di due forme colorate: il tono è ancora incantato. Solo in un luogo così può passare come un'ombra l'inquietante figura dell'ebreo errante così grande e così fiabesca. E' vestito come un viandante, come un pellegrino, uno straniero apolide, con il bastone, il pastrano nero, il sacco grigio sulle spalle, il cappello e la barba. L'ebreo non si sa da dove venga, né si sa dove vada. Nessuno viene fuori a guardarlo passare; è come un sogno o come la materializzazione onirica della sua leggenda, della fiaba raccontata ai bambini davanti al fuoco. E' la condizione precaria degli esseri che non hanno un luogo dove fermarsi e camminare insieme agli altri; ma debbono vagare solitari e rifiutati senza essere mai della città, ma guardando la città dall'alto, senza mai scendere, nemmeno per morire. 
                 Un'altra immagine leggendaria è quella del violinista sul tetto. Ci sono molti dipinti di varie cromie con questo soggetto particolarmente caro a Chagall. Il violinista è tipico della cultura della festa ebraica: ai matrimoni, alle riunioni, alle nascite, agli incontri del mercato, nelle vie, nei bazar, nelle piazzette, nelle botteghe, i violinisti sono sempre presenti; allietano con la loro musica e soprattutto accompagnano con la loro musica. Il violinista per il pittore è una figura importante: nella sua famiglia, lo zio era violinista e lui l'aveva spesso visto mentre suonava e lo aveva seguito: nel 1911, una delle prime immagini vede il violinista con un bambino che chiede l'elemosina in mezzo alla strada. Figura di precarietà, di miseria, ma mai triste, come non è triste la melodia che egli lascia. Che vi sia un contesto felice e domestico lo dimostra la coppia abbracciata sul fondo. Ma il violinista è spesso visto sul tetto delle case e questo perché egli, così , è metafora della condizione di precarietà in cui sono costretti a vivere quotidianamente gli ebrei.




                     
                                                      Marc Chagall, Il violinista, 1912-1913, Stedelijk Museum, Amsterdam 


Il violinista è una figura abnorme che sovrasta la città , una figura leggera e allo stesso tempo quasi monumentale e comunque carismatica: i tre ometti con le teste in verticale sovrapposte guardano in alto via via attirati dal suono, dalla melodia cercano il violinista sui tetti senza vederlo. Il violinista ha un abito bianco come la neve dei campi e marrone a righine come la cupola specchio della chiesa ortodossa; anche il violino è bicromatico : arancione e giallo e persino l'archetto, bianco e marroncino, tutto indica il non definito, il provvisorio, l'irrealistico, il meraviglioso, il favolistico. Si guardi a destra il delizioso alberello con la chioma blu con gli uccelli bianchi, colombe della pace. Il violinista ha il viso verde. E' il colore del riconoscimento per lo stesso pittore che molto spesso si dipinge la faccia di verde, il colore della speranza e della saggezza. Ed ha la barba blu che fa da corona, da completamento al volto; sulla testa il cappello rosa completa l'abbigliamento strano e inverosimile come inverosimile è la stessa figura. Sul fondo aleggia una strana figura ocra, una specie di presenza messianica, una specie di richiamo che il violinista non vede e continua invece a suonare solitario sopra la città e sopra il mondo ( lo spazio verde, bianco e giallo, in basso è semisferico ). Chagall diceva spesso che la sua pittura era come una finestra da dove egli guardava un mondo altro, diverso, un mondo creato dall'artista. Da questa finestra tutto diventa possibile, anche l'impossibile: è la finestra della figurazione magica, dei colori irreali, della dimensione favolistica, è la finestra del sogno di noi tutti che cerchiamo nella realtà altra, diversa dalla nostra, la nostra anima.

Bibliografia: 

Lionello Venturi, Marc Chagall, Skira, Milano, 1967
Bool-Teschova Jacob, Marc Chagall, Taschen, Berlin, 1998, vers. italiana
Viktor Misano, Chagall, Art e Dossier, Giunti, Firenze, 2009
Michele Dantini, Marc Chagall, Ar e Dossier, Giunti, Firenze, 2014
Metzgen Rainer Walther, Marc Chagall, Taschen, Berlin, 2012    
Federica Tammarzio, Amore e musica nell'opera pittorica di Marc Chagall, Firenze libri, 2006  
AA.VV. Chagall e la Bibbia, 2004.

Attualmente al Palazzo Reale di Milano è in svolgimento una grande mostra retrospettiva su Chagall curata da Claudia Zevi e Meret Meyer, in allestimento sino 1 febbraio 2015. Per i biglietti www.ticket.it/Chagall.