mercoledì 22 marzo 2017

Il primo tempo: Musici fioriere e Fruttiere. Prima parte.



                                    IL PRIMO TEMPO

                                            MUSICI , FIORIERE E FRUTTIERE
                                                                  ( prima parte )


             Evaristo Baschenis, ultimo e più grande rappresentante di una famiglia di pittori bergamaschi della Val Bembrana, nato a Bergamo nel 1617, può essere considerato a ragione l'inventore della natura morta con soli strumenti musicali; con lui, in effetti, questo genere, che prima era subordinato alla presenza della figura sacra o profana, raggiunge autonomia e perfezione formale, sia sul piano del realismo oggettuale, che su quello della tecnica di raffigurazione con perfette rappresentazioni prospettiche, sia anche sul piano del simbolismo, mostrando nel velo di polvere che sempre si presenta sui suoi strumenti musicali, il senso della caducità del tempo, della tradizionale vanitas, che dal Cinquecento  rappresenta l'espressione simbolica più evidente dell'esposizione di frutti, fiori e strumenti musicali. A differenza dei suoi parenti frescanti, Evaristo scelse la pittura ad olio e da cavalletto ed anche una clientela privata e medio alto borghese o nobiliare. La scelta dell'iconografia musicale nasce dalla sua consuetudine con maestri di musica sacra e profana, liutai, cantanti. Nell'epoca in cui operavano i liutai cremonesi   Amati ( Niccolò Amati, figlio di Girolamo, 1596-1684 ), gli Stradivari ( Antonio Stradivari, 1644-1737 ), I Guarneri detto anche del Gesù per la sigla IHS con la quale firmava i suoi strumenti ( Antonio Guarneri, figlio di Giovan Battista, 1692-1744 ), Evaristo poté ampiamente documentarsi sulla serie straordinaria di strumenti sfornati nelle loro botteghe, liuti,viole,violini,violoncelli, erano a disposizione del pittore ed egli poté studiarli e rappresentarli in tutte le condizioni di luce, di posizione e di spazio. Naturalmente Evaristo opera in un periodo del tutto estraneo a quando opera Caravaggio, tuttavia non si è data importanza alla tradizione iconografica della liuteria cremonese e lombardo-veneta in genere che poteva essere a conoscenza del Merisi, né al fatto che questi poteva essersi inserito, già quand'era in Lombardia in un filone che sebbene non ancora autonomo era già esistente. Evaristo, prete cremonese, aveva dipinto anche nature morte, diciamo così, da cucina, con esposizione di frutta nelle ceste, di pesci, di pollame, di biscotti, di vasellame. Se gli strumenti musicali erano espressione allegorico-simbolica del senso dell'udito, frutta,pollame, pesci, verdure, funghi, lo era del senso del gusto. Evaristo era anche lui stesso ottimo musico, pertanto gli strumenti musicali erano raffigurati anche nella concezione della loro funzione ed uso. Il Trittico Agliardi , presso collezione privata, intorno al lo mostra mentre è intento a suonare la Spinetta, mentre in piedi, il conte Agliardi lo accompagna con la mandola. Prete Evaristo ( Prevarisco ), ci mostra nature morte di strumenti musicali in un interno, talvolta in precario equilibrio ( come in Caravaggio, ed indipendentemente da lui, indicano la precarietà della vita e della bellezza-armonia ) su tavolini su tappeti preziosi, accanto ad eleganti tendaggi, talvolta con l'aggiunta di frutti, con la presenza di spartiti e in qualche caso con l'aggiunta della figura umana come musico o con  immagini mitologiche ( cfr. Luigi Angelini, Evaristo Baschenis, DBI, vol. 7 ( 1970 ) e dello stesso: Forma e luce nelle nature morte di E.B., in Bergomum, IV, 1953, pp. 15 ss. con elenco delle opere ). Vediamo, qui sotto, Strumenti musicali del Museo Reale Belga di Bruxelles:


Evaristo Baschenis, Strumenti musicali, fra 1635 e 1677, olio su tela ( 39x57,5 ) Royal Museums of Fine Arts of Belgium, Bruxelles.

              Il concetto allegorico di vanitas non si esaurisce affatto con una maggiore attenzione al realismo degli oggetti musicali raffigurati ma in pieno Seicento continua la tradizione rinascimentale arrivando ad aspetti anche più ampi e complessi di significazione simbolica con Evaristo, ad esempio nel bellissimo Natura morta con strumenti musicali e statuetta, dipinto fra 1658 e 1672c, che è anche conosciuto come Vanità delle Arti Liberali: ( musica, strumenti e spartiti ), statuetta virile ( arti figurative ), libri, calamaio e penna ( la poesia ). Il dipinto è anche un raro esempio di associazione fra due nature morte, in quanto faceva pendant con un dipinto di cucina, oggi in collezione privata a Torbiato ( E. De Pascale, in AA.VV. Evaristo Bascheris e la natura morta in Europa, Milano,1996, p. 156, ). Anche qui, come nel dipinto di sopra, è presente in alto a destra un ricco sipario barocco, un oggetto teatrale visto e studiato dal vivo. E sappiamo come spesso in Caravaggio la presenza del sipario, rosso e di sicura origine teatrale, caratterizzi non poco dipinti.  


Evaristo Bascheris, Natura morta con strumenti musicali e statua virile, fra 1658 e 1672, museo dell'Accademia Carrara di Bergamo

                 Evaristo fu a Roma nel 1639, ed è del tutto possibile che avesse visto in casa Giustiniani il dipinto di Caravaggio Amore Vincitore conservato dietro una tenda verde ( l'inventario del 1638, alla morte del marchese Vincenzo contava ben 13 tele di Caravaggio conservate nella Sala delle tele antiche, fra cui L'Amore vincitore che presenta, alla base del giovinetto nudo che figura Eros, una natura morta di strumenti musicali ma non solo che potrebbe essere classificata, come l'opera di Evaristo Vanità delle Arti Liberali ) . Il marchese Vincenzo, inoltre, era un esperto teorico di musica e sappiamo che non di rado organizzava festini musicali a palazzo cui intervenivano il cardinal Montalto e il cardinal Del Monte ( cfr. Caravaggio e i Giustiniani, toccar con mano una collezione del Seicento, Catal. della Mostra a c. di Silvia Danesi Squarzina, Palazzo Giustiniani, Roma, 2000-1, Milano, 2001 ). Difficile che Evaristo si rifece al Merisi, fra l'altro di zona bergamasca come lui, ma certo nel dipinto di Michelangelo vi avrà trovato importanti consonanze. E dunque fra Milano e Bergamo e Cremona tanto Evaristo, quanto Michelangelo, ognuno in ambiti e secondo modalità e tempi diversi, trovarono una comune ispirazione nell'iconografia musicale. Il giovane Caravaggio aveva avuto modo di poter vedere le opere musicali di Simone Peterzano. Avrà visto L'allegoria della musica  realizzata intorno al 1580, in cui la bellezza erotica di Venere si unisce all'esposizione ed esibizione dei due musici ( uno all'organo, l'altro al flauto traverso ) e a quella solitaria, riduttiva, dell'Amorino in basso a destra che cogliamo mentre sta leggendo uno spartito ( l'opera è conosciuta in almeno tre varianti, con l'Amorino, senza l'Amorino, in Concerto: Enrico dal Pozzolo, L'allegoria della musica di Simone Perzano , Polistampa, Firenze, 2012  ) ; il giovane all'organo che si volta verso di noi potrebbe aver ispirato in qualche modo il giovane sul fondo, autoritratto del pittore, che si volta nel Concerto di New York. Ma le atmosfere musicali, che certo potevano esser state assorbite nell'ambito di incontri con esibizioni di musiche profane nei ritrovi dell'Accademia dei Vignaioli o di Brelo, come composizioni iconografiche dovevano essere state trasmesse al Merisi attraverso le conoscenze che il Peterzano poteva aver fatto a Venezia, già prima dell'ipotetico viaggio di cui si è parlato; Peterzano alunno di Tiziano, era entrato in contatto con le atmosfere musicali del Vecellio e di Giorgione, sia nei singoli ritratti di musici, sia nelle figurazioni di concerti.    


Simone Peterzano, Allegoria della musica,c.1580, Staatliche Museum, Schwerin


           Scrive Vasari nella Vita di Giorgione " Fu allevato in Vinegia, e dilettossi continovamente delle cose d'amore, e piacqueli il suono del liuto mirabilmente e tanto, che egli sonava e cantava nel suo tempo tanto divinamente, che egli era spesso per quello adoperato a diverse musiche e ragunate di persone nobili"( Vasari-Milanesi, IV, 1881, p. 92 ); dunque Giorgione era un pittore-musico-cantore, si dilettava di suonare il liuto e di cantare in riunioni musicali di giovani nobili e per questo anche ricercato. Il riferimento più immediato è all'idillio pastorale e musicale che vede raccolti i nomi di Giorgione e di Tiziano giovane; parliamo nel notissimo Concerto del Museo del Louvre , databile forse al 1509.


Giorgione ( e Tiziano ), Concerto campestre, 1509, olio su tela, Musée du Louvre, Paris 

Nello stupendo dipinto domina la morbida, compatta, fresca presenza del paesaggio che suggerisce una particolare amorosa intimità conviviale secondo le lezioni dei teorici dell'amore platonico rinascimentale come il Pietro Bembo degli Asolani e il Leone Ebreo dei Dialoghi d'Amore . Nella cornice idilliaca degli Asolani , il liuto ( riprodotto in una delle primissime volte in pittura ), strumento cittadino e amoroso per eccellenza, lega e fa da tramite attraverso la sua musica melodiosa le donne agli interessi dei giovani gentiluomini ( l'educazione musicale era componente importante dei giovani nobili veneziani e faceva parte di una necessità dei futuri uomini di corte come si legge nel Cortegiano del Castiglione ). Nell'opera non ha tanto importanza il realismo degli strumenti e del loro corretto uso ( il giovane con il cappello ha un liuto appena abbozzato, non se ne vede il tavolato e le corde e la mano sinistra è posta in alto come se stesse pizzicando corde che non vi sono e lo strumento viene di fatto svilito dalla vicinanza con la ricca manica serica rossastra ; la donna nuda tiene in mano il flauto dolce come se tenesse in mano una penna e il corpo dello strumento è sottile e quasi insignificante, assorbito dalla corposa nudità, come se ne facesse parte  ); a Giorgione interessa, invece, suscitare l'armonia musicale attraverso la musicalità del colore, attraverso la sua vibrazione melodica nel paesaggio idilliaco e onirico. Il sogno amoroso si sviluppa attraverso l'armonia degli opposti: le due carnali donne nude sono espressioni della natura, sorgono da essa, mentre i due giovani gentiluomini sono immagine della colta e distante civiltà, del suono corposo e dolce. La donna nuda seduta che ha appena suonato il suo richiamo amoroso inascoltato, vorrebbe attrarre a sé l'attenzione dei due giovani, invitarli nel sogno pastorale, come sembra anche fare, da lontano, il rozzo pastore che arriva suonando, ma i due giovani, che hanno appena terminato il loro personale pezzo musicale, sembrano essere rapiti da quelle sole note che loro stessi hanno prodotto. La donna nuda in piedi che versa l'acqua nel pozzo, indica la volontà del rimescolìo delle acque, il desiderio del tutto, della piena armonia attraverso i contrasti e gli opposti. Su tutto domina il paesaggio, nella sua compatta, morbida freschezza, nella luce meridiana e musicale di una giornata foriera di pioggia. Non è però certo da qui, pur nella ricca bellezza di un paesaggio che risente della lezione leonardesca e della sua dolce musicalità, che pure avrà qualche importanza nel Riposo nella Fuga in Egitto di Caravaggio, che vanno cercati i temi musicali che poi saranno trattati dal Merisi. Non è nel paesaggio, ma negli interni, nella musica colta da stanza, che dovremmo vederli. Ma è ancora a Venezia che si sviluppa l'importante teoria musicale con le opere di Gioseffo Zarlino, Le Institutioni harmoniche del 1558 e le Dimostrationi armoniche, del 1571. Testi fondamentali di teoria musicale diffusi praticamente in tutta Europa alla fine del XVI secolo e in possesso di tutti gli studiosi e appassionati, sicuramente facevano parte della biblioteca di due committenti di Caravaggio: il cardinal Del Monte e il marchese Giustiniani. Nelle Istitutioni Zarlino spiega che la musica è un sapere basato sulla quantificazione delle voci e dei suoni e nelle Dimostrationi si occupa di spiegare il suo sistema basato sulla tonalità delle scale maggiori e minori. I suoi mottetti polifonici, pur essendo poco numerosi, dimostrano la maestria dello Zarlino nella tecnica del contrappunto musicale; pure polifonici, a più voci, sono i madrigali pubblicati fra 1549 e 1599 . Zarlino studiò musica a Venezia nella Cappella di San Marco con il grande compositore franco-fiammingo Adrian Wiallaert che la diresse sino al 1562 ( in seguito fu lo stesso Zarlino ad esserne a capo ), autore di 70 madrigali, di mottetti e varie composizioni sacre ( fu l'inventore dell'Antifonale, applicato alla Cappella di S. Marco che consisteva in due cori posti ai lati dell'altare accompagnati da un organo, che cantavano simultaneamente ). Sebbene la sua importanza sia soprattutto nell'ambito della musica sacra, egli fu apprezzato anche come compositore di madrigali e le sue opere erano molto note anche in Lombardia. Interessante è il paragone che Zarlino fa fra il pittore e il musico affermando che come il primo deve saper rendere conto della sua opera e non adoperare vagamente i colori, così il musico deve saper dar conto della sua composizione, della capacità di armonizzare al meglio le note ( Gioseffo Zarlino, Istituzioni armoniche, a c. di Silvia Urbani in www.diastemastudiericerche.org/pdf/ Zarlino/ e www,tmiweb,science.uu.Nl/text/reading-edition/zariens58.html edizione on line, 2000 cap I, pp.2-4 ). Il paragone fra pittore e musico fatto da Zarlino è sicuramente calzante per Venezia, in quanto il teorico sapeva molto bene quanto i pittori avevano interessi musicali e come gli spartiti quanto i libri di musica fossero spesso presenti nelle botteghe pittoriche. Si può a ragione anche parlare di un paragone fra le due arti, una ut pictura musica sul modello della ut pictura poesis, che avrà anche una visualizzazione nell'opera di ubicazione ignota del pittore seicentesco Giovanni Andrea Sirani ( La pittura e la musica, in foto della Fondazione Zeri ) , in cui vediamo le due arti sorelle in un interno-studio, contrapposte e all'opera ognuna nella sua arte. Il rapporto musica-pittura  ( su questo aspetto vedi Massimo Privitera, Pittori e musici nell'Italia del Cinque-Seicento, Rivista del Dipart. di Musicologia e Beni Culturali, Università degli Studi di Palermo, Palermo, 2014, visibile anche su www.riviste.paviauniversitypress.it )  era già piuttosto intenso in età rinascimentale come riportato dal Vasari che accenna a Leonardo e Giorgione, ma anche a Bramante e a Piero di Cosimo fra i più importanti ed afferma che Sebastiano del Piombo fu prima musico e poi pittore ed era particolarmente dotato nel suonare il liuto da solo, senza compagnia ( Giorgio Vasari, ed. Vite a c. di Paola Barocchi, vol V, 1984, pp.85-86 ). Leonardo poi, si compiaceva del fatto che il pittore, a differenza dello scultore, poteva lavorare nel silenzio ed ascoltare anche piacevoli composizioni musicali ( Antony Blunt, Le teorie artistiche in Italia dal Rinascimento al Manierismo, Torino, 1966, p. 67 )  Inoltre alcuni si erano fatti ritrarre in veste di musici come Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi, Gian Paolo Lomazzo aveva scritto che "Leonardo, Michel Angelo e Gaudentio...pervennero alla cognitione della proportione armonica per via della Musica, e con la consideratione del fabrica del corpo nostro; il quale anch'egli con musico concetto è fabricato" ( Lomazzo, Idea del Tempio della Pittura, 1590, p, 190 ). Addirittura il Comanini riferisce che il pittore Arcimboldo aveva trovato nella pittura precise consonanze musicali"i tuoni et semituoni e ‘l diatessaron e ‘l diapente e ‘l diapason e tutte l’altre musicali consonanze dentro i colori, con quell’arte a punto che Pitagora inventò le medesime proporzioni armoniche» (Paola Barocchi,1960-1962, III, p. 368) e ha fatto ciò oscurando il bianco di tanti gradi quanto, in proporzione fanno i gradi musicali, estendendo alla pittura ciò che Pitagora aveva fatto con l'armonia musicale. Vincenzo Galilei, teorico musicale, liutista e padre del grande fisico, astronomo e teorico Galileo e del liutista Michelangelo, appartenente alla fiorentina Camerata dei Bardi, nel 1581 scrisse un altro importante e famoso trattato Dialogo della musica antica et moderna, nel descrivere le strategie adottate dagli antichi in campo musicale adotta il concetto del decorum che è stato alla base di tutta la vasta trattatistica artistica. Decoro significa che "ogni età, ogni sesso, ogni tipo di essere umano deve manifestare, nella raffigurazione pittorica, il proprio carattere rappresentativo"; ed è compito del pittore "conferire scrupolosamente a ogni figura il fisico, il gesto, il portamento e l’espressione più appropriata", allo stesso modo il musico nel cantare"...qual si voglia Poema, essaminata prima diligentissimamente la qualità della persona che parlava, l’età, il sesso, con chi, & quello che per tal mezzo cercava operare, i quali concetti [erano stati] vestiti prima dal Poeta di scelte parole a bisogno tale opportune, gli esprimeva poscia […] in quel Tuono, con quelli accenti & gesti, con quella quantità & qualità di suono, & con quel rithmo che conveniva in quell’attione a tal personaggio" ( Galilei, 1581, p. 90 ). Armonia e Decoro, dunque, due fondamentali aspetti comuni della pittura e della musica.

                 Il liuto è lo strumento più comune e più importante del Rinascimento ( Giovanni Maria Lanfranco, in Scintille di musica, 1533, lo definisce "il più perfetto instrumento di tutti gli altri" ) ; dai primi modelli a 6 cori giunse ad averne sino a 10 nel primo periodo barocco. Grandi da 55 a oltre 68 cm in lunghezza e in qualche caso sino a 90 cm aveva forma a guscio formato da doghe, con manico diviso a tasti e cavigliera ribaltata all'indietro; quello bolognese, fra i più antichi conservati al Kunsthistoriusches Museum di Vienna, ne ha 13 ( ma ve ne sono alcuni sino a 20 doghe bicolori o tricolori bellissimi ) . E' piccolo, comodo e maneggevole, usato comunemente nelle camere da musica. Lo strumento era suonato con plettro, ma per dare più morbidezza al suono anche attraverso le dita della mano che pizzicavano le corde. E' un tipico strumento di arte profana con il quale si accompagnavano i madrigali cantati a voce; la composizione per liuto è detta intavolatura. Presso gli Sforza, dove operavano diversi musici italiani e franco-fiamminghi il liuto era molto diffuso, anche se gli strumenti erano importati o acquistati a Cremona o a Bologna o a Venezia. Fra fine Cinquecento e inizi del Seicento il liuto ha la sua stagione migliore, va poi declinando a favore di altri strumenti come la Tiorba o Chitarrone, che il marchese Giustiniani, mecenate tanto di artisti, quanto di musici, lamenta nel 1620 essere i nuovi strumenti alla moda più adatti forse per il canto di accompagnamento, ma non così di suono prezioso come il liuto sebbene difficile da suonare ( Davide Rebuffa, Il liuto, Palermo, 2012 ).  


Amman der Lautmarker, Maestro liutaio nella sua bottega, incisione,  Franckfurt am Mein, 1568
       Il liuto, anche perché strumento elegante, nobile, esteticamente piacevole è stato spesso rappresentato in pittura ( si potrebbe parlare di iconografia pittorica del liuto ), prima associato alla figura umana, suonato dal musico o dal musico-cantore, poi come oggetto da natura morta sino ad arrivare alle eccellenti rappresentazioni figurative del Baschenis, delle quali si è detto. Non di rado il liuto è imbracciato dalla figura femminile, per associazione di bellezza muliebre e musicale, possiamo indicare la Suonatrice di Liuto di Andrea Solario del XVI secolo, ma senz'altro il dipinto più bello in questo senso è il bellissimo Suonatrice di liuto di Orazio Gentileschi del 1626, della National Gallery di Waschington. La scena di genere , rappresenta momenti di vita quotidiana che però almeno sino alla fine del Cinquecento e ancora nei primi decenni del secolo successivo, ancora è legata a modalità allegorico-simboliche, in particolare della vanitas . Il liuto raffigurato in mano al musico partecipa di questo simbolismo e quindi non è ancora completamente inserito in un genere autonomo. A Milano e nella Lombardia in cui si muoveva Caravaggio, fra stanze di musica, teatrini accademici all'aperto, osterie e botteghe di strumenti musicali, l'iconografia è resa viva da pittori attenti alla resa realistica degli strumenti e del musico che vengono posti molto in avanti, in primo piano. La posizione delle mani è studiata e realmente adeguata allo strumento da suonare, lo spartito non è solo vagamente definito, ma attentamente riprodotto nella chiave, nel rigo musicale, nelle notazioni poligonali nere ( un esempio di carta da musica molto precisa è quella della Bottega del Poccetto del 1588 in Casa Zuccari a Firenze ) . Un pittore che si è dedicato molto alla figurazione di musici da soli o in concerto è stato Giovanni Busi detto il Cariani, che ha operato fra la Lombardia e Venezia. Nato forse in Fuipiano al Brembo, città natale del padre fra 1485 e 1490, o forse a Venezia, dove il padre e la famiglia risiedevano almeno dal 1510 e dove il padre Giovanni Busi era comandator del Magistrato del Proprio. Il pittore in ogni caso era considerato veneziano d'adozione o nativo se risulta esser stato nominato nel 1517 bancale, cioè assistente del Gastaldo, uno dei capi della Scuola dei pittori di Venezia. Fra il 1517 e il 1524 non è segnalato nella città lagunare dai documenti, mentre risultano suoi dipinti a Bergamo, dove si può pensare che risiedette in questo arco di tempo. In seguito si divise fra Venezia, Bergamo, Crema. Il Cariani, che pure realizzò diverse opere sacre, si impose negli ambienti aristocratici come ritrattista con diverse opere da cavalletto. Sono conosciuti, del pittore, che subì l'influenza di Palma il Vecchio, con quale talvolta è confuso, e di Sebastiano del Piombo e del Lotto, diversi ritratti di musici e cantanti. Talvolta l'impostazione delle figure è a tre personaggi, dove quello di centro è il musico, come in questo Concerto o in un altro dove vediamo il liutista centrale che è intento a suonare e a cantare, mentre i due personaggi laterali lo accompagnano con il canto. Ma il Cariani ha anche realizzato ritratto di un solo musico liutista intento solo a suonare, sia visto in un interno, sia visto con alle spalle un frammento di paesaggio da concerto campestre di ascendenza giorgioniana.  

Giovanni Cariani, Concerto, 1518-1520, olio su tela, National Gallery , London





Giovanni Cariani, Concerto, 1518-1520c., olio su tela, collezione privata



Giovanni Cariani, Ritratto di suonatore di liuto, 1515-1516, Musée des Beaux Arts, Strasburg


            E' chiaro che Caravaggio deve aver visto già prima della ricca collezione in casa del Monte, strumenti musicali in mano a musici, come può aver visto, lo abbiamo già indicato a proposito dell'Allegoria del Peterzano, opere figurative che li riproducevano. Va anche detto che il liuto,più del violino e meno della chitarra,  è spesso raffigurato negli angeli musicanti. Era piuttosto famosa la Pala di San Giobbe, originariamente nella chiesa di S. Giobbe a Venezia ora all'Accademia, di Giovanni Bellini. In un inserto della Pala vediamo un gruppetto di angeli musicanti intenti a suonare strumenti a corda, come il liuto e il violino ( ma è più una vihuela o "viola da mano" ). Nella stessa chiesa di San Giobbe, ispirata alla Pala di Giovanni Bellini, si trovava un'altra Pala, Presentazione di Cristo al Tempio, Santi e angeli musicanti del Carpaccio, dalla perfetta costruzione piramidale, in cui vediamo alla base un angelo bambino che imbraccia un liuto impostando correttamente le mani sulle corde e ponendo attenzione ai movimenti delle dita con lo sguardo, in modo più realistico degli angeli di Giovanni, che sembrano distratti o estranei al loro compito di musicanti e più interessati e quasi rapiti ( almeno i primi due ) dalla Sacra Conversazione dei Santi, rivolti a sinistra dove sono S. Francesco, San Giovanni Battista e il santo della chiesa, Giobbe ( qui fuori riquadro ).


Giovanni Bellini, Pala di S. Giobbe, angeli musicanti, particolare, 1487, olio su tela, Gallerie dell'Accademia, Venezia


Carpaccio, Angelo musicante che suona il liuto, c. 1510, Gallerie dell'Accademia di Venezia
                    Al di là di questi due importanti esempi veneziani, in Lombardia vi sono diversi esempi di angeli musicanti : nella cupola del santuario della Santa Vergine dei miracoli, di Saronno, in provincia di Varese, possiamo osservare il ricco campionario di strumenti musicali dipinti da Gaudenzio Ferrari, che sono suonati dagli angeli senza differenziazioni sociali né dissonanze, ma in un tutto armonico e  in un linguaggio semplice ed immediato che il pittore aveva sperimentato nelle cappelle del Sacro Monte di Varallo. Così possiamo osservare strumenti pastorali come il corno, la siringa, il flauto dolce, accanto ad altri di estrazione borghese e alto borghese come il liuto, o nobiliari come la lira o l'arpa o ancora di estrazione colta come il liuto. In questo " paradiso democratico", non vi è, però, alcuna  precisa intenzione realistica ( alcuni strumenti sono inventati ), a Gaudenzio, sulla scorta dei Salmi di David interessa rappresenta il locus paradisiaco come una Babele di strumenti e suoni diversi, ma in sé uniti nella comune lode a dio. Come afferma Lomazzo, nel Tempio della pittura, Milano, 1590lo stesso Gaudenzio suonava la lira ed il liuto, ed aveva avuto sempre grande attenzione per la musica: degli oltre 50 strumenti raffigurati alcuni sono quelli usati nella liturgia delle chiese lombarde, altri sono invece inventati; ma tutti sono realizzati con grande attenzione. Dunque Caravaggio durante il suo apprendistato lombardo avrebbe potuto non solo ascoltare musica profana presso gli Accademici della Valle di Brelo, come si è detto frequentata da diversi pittori e musici, ma anche la musica sacra nel Duomo, la cui Schola, dalla grandiosa tradizione dei Matteo da Perugia e Bertrand Fergut, soprattutto di Franchino Gaffurio, da Giulio Cesare Gabussi ( 1583-1611), che fece diverse innovazioni in campo musicale come l'introduzione nella musica per cori accompagnata dall'organo, l'assolo dell'organo stesso. Inoltre il pittore aveva avuto modo di poter 'vedere' la musica nella ricca iconografia musicale lombardo-veneta, sia direttamente che per mezzo di copie pittoriche e stampe.
 
                A questo punto ci si chiede se Caravaggio, nel momento dell'arrivo a Roma, come si è detto, nel primo semestre del 1596 ( la documentazione della prima menzione è del 1597 fatta dal testimone Pietro Paolo, barbiere che dichiara di conoscerlo da sei mesi all'incirca ), non avesse portato con sé, per farsi conoscere come pittore, alcune tele fatte nel periodo milanese, accuratamente arrotolate e conservate in appositi tubi o porta tele di vacchetta per proteggerle dalle intemperie o da eventuali incidenti durante il viaggio verso la città eterna. L'unico studioso che ha tentato un rischioso e contestato "Opere milanesi di Caravaggio", è stato Silvino Borla in un vecchio articolo su Emporium del 1963 ( CXXVIII,n.826, pp. 57-161 ). Non si tratta tanto qui di indagare su determinati quadri, bensì vedere se vi siano in alcuni dei primi dipinti possibili tracce padane e milanesi ( con questo non si vuole intendere che fossero per forza dipinti in Lombardia, ma che, se dipinti pure a Roma, erano ancora strettamente legati alla cultura non solo figurativa e alle esperienze vissute in quei luoghi, in particolare a Milano ) .

             Dopo aver avuto vita molto dura nei primi anni romani, come narrano tutti i biografi ( l'ultima scoperta molto importante, che abbiamo già segnalato in altro post, è di una Vita del Caravaggio, inedita trovata da Riccardo Gandolfi, cfr. l'articolo di Carole Blumenfield su Le jounal de l'Art, del 31/3 , n. 476, p. 6 ; non fa altro che confermare quanto già scritto: la Vita è del 1614, 4 anni dopo la morrte del pittore! )  fra la bottega del pittore siciliano Lorenzo Carli, dove conobbe il giovane pittore siracusano, Mario Minniti e dove era applicato a fare teste ( cioè ritratti di personaggi illustri ) e le osterie di un certo Tarquinio milanese dove era alloggiato, Caravaggio andò ad abitare in casa del pittore Antiveduto Gramatica, dove si dedicò a fare mezze figure, nella bottega presso S. Agostino alla Scrofa, per trasferirsi in seguito nel palazzo di monsignor Pandolfo Pucci, prima dimora decente, a Borgo, documentata da Giulio Mancini ( Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura, ed.1956, p. 224 ), Presso monsignore Michelangelo faceva copie di devozione che egli inviava a Recanati sua patria; il soggiorno presso il Pucci non dovette essere particolarmente felice, Caravaggio si lamentava dello scarno pasto ( insalata a pranzo e a cena ) e inoltre era impiegato anche in attività estranee alla pittura ( Lothar Sickel,Gli esordi di Caravaggio a Roma, Bibliotheca Hertziana, Roma, 2010, pp. 25-26 ). Come segnalato dall'ottimo studio di Lothar Sickel, Caravaggio aveva dipinto anche quadri poi venduti, ma soprattutto che la sua attività di ritrattista era già iniziata quando era ancora in Lombardia, addirittura a Caravaggio, come confermerebbe il ritratto di una donna, Marsibilia Secco ( Inventario Giustiniani, 1638, Danesi-Squarzina, II, 2003, p.417,n.74 ) caravaggina, che nel 1576 si era sposata a Caravaggio con il notaio Giovan Battista Gennari ( anche Berra, 2005, p. 144, n. 484 ) il quale nel 1592 stipulò il testamento di Stefano Aratori, prozio di Caravaggio ( Sickel, 2010, p, 26 ). Possibile che il quadro, finito nella collezione Giustiniani dove è indicato come" dipinto della prima maniera" , fosse stato portato con sé dal Merisi quale dimostrazione di capacità di ritrattista, attività artistica che poi applicò al suo arrivo a Roma. Il luogo di vendita dei dipinti a Roma era presso la bottega del "rigattiere di quadri vecchi", Costantino Spada, forse di origine greca, ma nato a Roma, che Baglione chiama "maestro Valentino", confondendolo con un altro rivenditore di quadri di questo nome ( Francesca Curti, Costantino Spada"rigattiero di quadri vecchi e l'amicizia con Caravaggio. in L'esercitio mio è di pittore, Roma moderna e contemporanea,XIX 2011, pp. 151-197 ). Questo Costantino la notte dell'8 luglio 1597, quando Caravaggio raccolse il ferraiolo di cui parla nella sua testimonianza il barbiere Pietro Paolo, si trovava con lui e con Prospero Orsi, altro amico e talent scout di Caravaggio ( Curti, cit., p.171 ) Uno dei primi dipinti era presso Costantino Spada prima di essere acquistato dal Cavalier D'Arpino ( presso il quale Caravaggio lavorò come pittore di fiori e frutti ) , che con fine occhio lo aveva notato e subito lodato ( Laura Terza.  Caravaggio e il frutto della virtù, Milano, 2013, p. 14 ). Francesca Cappelletti, studiosa di Caravaggio sostiene che fu Prospero Orsi, uno dei primi amici di Caravaggio, ad introdurre il pittore nella bottega di Costantino Spada ( Francesca Cappelletti. Caravaggio. Un ritratto somigliante, Milano,Electa,2010, p. 24 ): presso questa bottega vennero venduti anche I Bari , acquistato dal Cardinal del Monte, primo potente protettore e committente di Caravaggio ed Il ragazzo morso da un ramarro, venduto ad un prezzo stracciato. Doveva trovarsi anche un dipinto che mostra ancora uno stile secco, come Il ragazzo che monda un frutto, forse eseguito in Lombardia ( cfr. Gli occhi del Caravaggio, a c. di Vittorio Sgarbi, La formazione, Milano, Mostra 2011, Catalogo, Introduzione di Vittorio Sgarbi, pp.17-19 ). Ma prima di parlare nella seconda parte di questo post, del dipinto in questione, è opportuno, per restare in tema musicale, occuparci dei dipinti di questo soggetto.

               Come è noto del Suonatore di Liuto esistono due versioni che differiscono nell'iconografia, uno, probabilmente, il primo autografo è quello ex Giustiniani, acquistato dal marchese Vincenzo, appassionato cultore di musica e teorico musicale, risalente al 1595-96, riportato nell'inventario dei beni del marchese del 1638; il secondo è un ex Del Monte, riportato nell'inventario del cardinale del 21 febbraio del 1627 ( Maurizio Marini, Caravaggio pictor praestantissimus, Roma, New Compton, ed. 2005, n. 17, p. 398 e n. 9 p. 381 ). Il Marini inserisce fra questi due dipinti anche un terzo, di iconografia simile, perduto o non identificato che si trovava nella collezione di Alessandro Vittrici ( Inventario del 7 ottobre 1650 ), descritto con una curiosa variante iconografica, una donna " vestita di Diana che suona il cimbalo ". Il Marini ritiene che il notaio estensore dell'inventario deve aver commesso un errore ingannato dall'evidente androginia del giovane scambiato per una donna e dal ricciolo a virgola della parrucca che deve avergli fatto pensare ad un attributo della dea Diana, una piccola falce di luna fra i capelli. Quanto al cembalo uno strumento simile, piccolo, da tavolo, si trova a sinistra nell'iconografia ex Del Monte ( Maurizio Marini, cit. p. 379. Lo studioso indica per questo dipinto uno presente in una collezione privata romana, n. 8 ). Alessandro Vittrici era il figlio di Gerolamo Vittrici e di Orinzia di Lucio Orsi, sorella di Prospero Orsi e nipote di Aurelio Orsi, il poeta morto nel 1591 ( è importante considerare che nell'inventario di Gerolamo Vittrici, morto nel 1630, si trovava un clavicembalo e che in casa Vittrice sin dal 1529 si faceva musica, Sybille Ebert Schiffer, Caravaggio dilettante di musica? in AA.VV., La musica al tempo del Caravaggio, a c. di Stefania Macioce, Roma, Gangemi, 2010, pp.29-40 ) ,  Ora, grazie alla scoperta di Riccardo Gandolfi di una inedita Vita di Caravaggio risalente al 1614 ( Carole Blumenfield, cit., p. 6 ), veniamo a sapere che un dipinto con un Suonatore di liuto venne dipinto in casa di Prospero Orsi il quale, saputo che il cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte Santa Maria, ambasciatore della Nazione Fiorentina, cercava un bravo pittore da potergli far fare delle copie, gli presentò il Caravaggio che venne invitato in palazzo Madama, residenza del cardinale ad abitare e lavorare ( lo scapestrato Michelangelo, arrivato il momento di portarlo a palazzo si fece cercare da Prospero per tutta la città fin quando non lo trovò presso la Statua di Pasquino con i soliti modesti panni addosso ). La Blumenfield ( p. 6 ), ritiene che Il Suonatore di Liuto fosse quello ex Giustiniani ( Gaspare Celio non lo descrive, lo indica soltanto ), che risulta essere il primo autografo dipinto, acquistato dal marchese prima della nuova versione Del Monte, descritto da Giovanni Baglione ( 1640 ): " dipinse per il cardinale...anche un giovane che suonava il Lauto, che vivo e vero tutto parea, con una caraffa de fiori piena d'acqua, che dentro il reflesso d'una finestra eccellentemente si scorgeva con altri ripercotimenti di quella camera dentro l'acqua, e sopra quei fiori eravi una viva rugiada con ogni esquisita diligenza finita. E questo ( disse ) che fu il più bel pezzo che facesse mai".

Caravaggio, Il suonatore di liuto, 1595-96, olio su tela, 94x119, San Pietroburgo, Museo dell'Ermitage

Il dipinto presentava un'iconografia elaborata con la presenza, sul tavolo di marmo ricco di venature bluastre, di un violino ( forse un Andrea Amati a sei corde come farebbe pensare anche la presenza delle X sul fusto ), di un archetto, di uno spartito aperto disposto su di uno chiuso ( o un libro di musiche chiuso ), di frutti ( fichi verdi e rossicci, pere, prugne, ), pampini di vite, cetrioli, un vaso di vetro azzurrato che riflette la luce con foglie di agrumi, gelsomini, alcune rose, una ginestra, un iride bianco e uno violetto, una calendula, un garofano. Il vaso di fiori è posto in rapporto al giovane suonatore ( come anche gli stessi iride sono in rapporto con la camicia bianca ), i fiori hanno la stessa dignità della figura umana, sono vivi quanto quella. Scrive il marchese Giustiniani, che sarà acquirente di questo dipinto in una lettera del 1610 a Dirk van Ameyden:" Il Caravaggio disse, che tanta manifattura gli era a fare un quadro di fiori come di figure" ( cit. da Ferdinando Bologna, L'incredulità del Caravaggio, Torino, Bollati Boringhieri, ed. 2006, p. 281 ). Questo dipinto, realizzato in casa di Prospero Orsi fu probabilmente visto dal cardinal Del Monte, che in seguito chiese una seconda versione, nella quale doveva trovarsi originariamente anche il vaso di fiori poi cancellato come dimostrato dalla radiografia del dipinto ( cfr., Ferdinando Bologna, cit.,  p, 305, n. 19 che si riferisce ad un importante articolo di Denis Mahon, sul Burlington Magazine del gennaio 1990, pp. 5-20  ) e, al posto del tavolo di marmo un tappeto all'orientale con strumenti probabilmente della collezione privata del cardinale, una spinetta o virginale ( della classe dei clavicembali ) ed un flauto dritto o dolce, con altri spartiti musicali.

Caravaggio, Suonatore di Liuto, c. 1596-97, olio su tela, 100x126, Metropolitan Museum, New York
Possiamo pensare, che il primo autografo, acquistato dal marchese Giustiniani e dipinto sembra nella casa del suo amico e propagandista Prospero Orsi, detto Prosperino delle Grottesche, dalla sua specialità pittorica ( da non confondere con Prospero Antichi detto, scultore bresciano ), fosse il prodotto, a livello iconografico, di esperienze pittoriche nel dipingere fiori e frutti unita a quella delle esperienze in campo musicale. E sappiamo come a Roma, Caravaggio fu impiegato presso il Cavalier D'Arpino ( Giuseppe Cesari ), come afferma il Bellori ( 1672 ) "a dipinger fiori e frutti sì bene contraffatti che da lui vennero a frequentarsi a quella maggior vaghezza che tanto oggi si diletta" ( p. 202 ). E nella bottega del cavaliere dipinse " una caraffa di fiori con le trasparenze dell'acqua e del vetro e coi riflessi della finestra d'una camera, sparsi i fiori di freschissime rugiade" ( p. 202 ). Mentre per l'esperienza musicale ci si potrebbe riferire alla ricca attività musicale di Roma ben descritta da Sybille Ebert-Schiffer, Caravaggio dilettante di musica? in AA. La musica al tempo del Caravaggio, cit.,pp. 29-41 ). Ma occorre fare alcune osservazioni. Il dipinto del musico con il vaso di fiori e i frutti con le gocce di rugiada è sicuramente una bella presentazione per un giovane sconosciuto pittore di talento. Prosperino lo aveva compreso subito. Invitandolo a dipingere a casa sua poteva fornirgli anche una sua esperienza. Prospero, più anziano di Caravaggio e ben addentro al mondo delle committenze romane, non era solo un comune pittore di grottesche, ma anche un buon pittore, collaboratore del Cavalier D'Arpino e forse anche autore di tele di fiori e frutti ( Clovis Whithfield, in News-Art, 2017, Il maestro di Hartford?Ma era Prospero Orsi! Risolto il dilemma della mostra alla Galleria Borghese?, chiarisce il ruolo avuto da Prospero nell'opera del Caravaggio e lo dice autore delle tele della Borghese, e, se prendiamo per buona l'attribuzione al Merisi del Ragazzo con caraffa di rose, Marini, n.2, p. 132 e se consideriamo che la radiografia della Cesta di frutta dell'Ambrosiana mostra come la tela fu fatta su una precedente di Prospero con una grottesca, non possiamo non considerare lo stretto rapporto fra i due, che ancora deve essere indagato a sufficienza ); un artista, quindi in grado di guidare il Caravaggio nella realizzazione di dipinti che potevano colpire l'attenzione dei possibili acquirenti romani. Aggiungiamo che Prospero si dilettava anche di musica e alla sua morte nel 1630, aveva lasciato un clavicembalo ( Sybille Ebert-Schiffer, p.29 ). Il Suonatore , dunque, quando venne dipinto nella casa-bottega di Prospero poteva avere nell' Orsi un collaboratore e, in teoria, anche chi poteva fornire materiale da ritrarre. Tuttavia ancora qualcosa non quadra. Caravaggio al momento in cui si legò a Prospero Orsi, era in condizioni economiche precarie, come documentano tutte le fonti e anche la recente Vita di Gaspare Celio ( che, ricordiamo, venne scritta solo 4 anni dopo la morte del pittore ), era ancora giovane, sbandato, dal carattere scontroso, solitario, ribelle, senza protezioni né frequentazioni importanti. Il Suonatore prevede una conoscenza iconografica, una cultura musicale, un'esperienza intellettuale, considerevole, una conoscenza avanzata degli strumenti musicali. E' vero che nell'inventario del pittore del 26 agosto 1605, fra le "robbe"si trovavano anche una "quitarra, una violina"(cf. Riccardo Bassani Flora Bellini, La casa le robbe lo studio del Caravaggio a Roma in due documenti inediti del 1603 e del 1605, in Prospettiva, 71, luglio 1993, pp. 68-73, p. 72 e Maurizio Marini e Sandro Corradini, Inventarium omnium et singolorum bonorum mobilium di Michelangelo da Caravaggio pittore, in Artibus et Historiae, XIV,28,1993,pp.161-176 ) e che in casa della famiglia Vittrici, imparentata con Prospero Orsi, si faceva musica dal 1529, anche che nell'inventario dei beni di Lorenzo Carli, il primo datore di lavoro del Merisi, era compreso uno strumento musicale" una chitarra alla spagnola" ( forse un piccolo liuto ) ( Sybille Ebert-Schiffer, cit., p.29 ) , ma questo ci suggerisce poco anche in considerazione che gli strumenti inventariati potrebbero essere stati acquistati in seguito. Il giovane pittore ( poco più di venti anni ), quando cominciò a frequentare Prospero  era decisamente fuori dal giro delle frequentazioni illustri e dunque dall'attività musicale romana indagata nel suo studio da Sybille Ebert-Schiffer ( pp. 30-35 ), non era ancora in contatto con il mondo di spettacolo e musica frequentato dal cardinale Del Monte e dal marchese Giustiniani e non si può pensare che la competenza musicale per il quadro gli derivasse dal solo Prosperino. Le conoscenze musicali del pittore, che dovevano già essere radicate, gli dovevano derivare più da Milano, dove, al di là della varietà di luoghi e di incontri ( cfr. Andrea Spiriti, Spazi della musica nella Milano del Caravaggio, in La musica al tempo del Caravaggio, cit., pp. 115-132 ), vi era un'accademia singolare, come l'Accademia della Valle di Brelio di cui si è già detto luogo d'incontro culturale fra pittori, musici, attori, scultori, grafici, ricamatori che Caravaggio, che conosceva Gian Paolo Lomazzo , probabilmente aveva frequentato dopo aver lasciato il Peterzano presso il quale, comunque, dovette accostarsi anche a frequentazioni musicali, considerate le opere di questo soggetto che Simone aveva dipinto ( la stessa Sybille Ebert-Schiffer non esclude che Caravaggio avesse già fatto un'esperienza nel campo della musica a Milano, p. 29 ).

                  Vediamo ora alcuni particolari del dipinto ex Giustiniani, primo autografo del Suonatore di Liuto. Giuseppe Delogu nel suo Caravaggio, Milano, Silvana, 1962, p. 140, a proposito della scritta in caratteri gotici istoriati sulla copertina del libro di musica chiuso, Bassus, che la  critica ha sempre indicato come chiave di basso sostiene che in realtà indichi il nome di un musico milanese Josephus Gallus ( Giuseppe Galli , contemporaneo di Caravaggio e non la chiave del liuto che non è di basso ma di tenore.  L'interpretazione di Delogu è seccamente smentita da Franca Trincheri Camiz, in un importante studio sulle figurazioni musicali di Caravaggio ( Franca Trincheri Camiz, Agostino Ziino, Caravaggio: aspetti musicali e committenza, in Studi musicali, XII, 1973,1,pp.67-90, p.68 ). Recentemente il termine Bassus è stato però rimesso in discussione da Emilio Negro, che vi legge il nome del musicista fiammingo Roland de Lassus ( Roland De Lattre ), nato in Belgio nel 1532, che operò nei circoli musicali frequentati da Ferrante Gonzaga, governatore di Milano e della Sicilia. Lo studioso aggiunge che  l'indicazione presente nello spartito della canzone " Voi sapete che io v'amo, anzi via doro... "del musico fiammingo Jakob Arcadelt ( Liegi 1505, Parigi 1568 ) era nota al marchese Giustiniani che ebbe il dipinto, ora a Leningrado, nella sua collezione e che citò nella sua opera Discorso sopra la musica i compositori, associati insieme, Arcadelt e proprio Lassus: " ...nella mia fanciullezza mio padre...mi mandò alla scola di musica, et osservai ch'erano in uso le composizioni dell'Arkadelt, di Orlando Lassus" ; lo studioso aggiunge poi che anche Gian Paolo Lomazzo celebrava le piacevoli composizioni musicali che si tenevano a Milano, le funzioni religiose e le riunioni conviviali con musiche di un compositore più giovane, allo stesso modo famoso e legato ai Gonzaga ( Emilio Negro, Caravaggio e la musica: un diverso significato per gli spartiti dei suonatori di liuto dell'Ermitage e del Metropitan, in AA.VV., Caravaggio e i suoi. Giornate di Studi a c. P. Pucci Pagliaro e Pierluigi Carofano, 8-9 ottobre 2016 ). Ma se il musico indicato con l'iniziale nel dipinto fosse stato Orlando Lasso, che nel 1553 era Magister puerorum della Cappella Sistina e della Cappella Giulia a Roma, nel 1556 già era fuori Italia, a Monaco di Baviera, dove morì nel 1594, Caravaggio non avrebbe potuto conoscerlo. L'indicazione del Giustiniani che ricordava la musica che andava'di moda'al tempo in cui suo padre frequentava la scuola di musica è generica e si riferisce a composizioni musicali usate per l'educazione dei giovani. Più interessante è ciò che afferma il Lomazzo, che nella Milano del suo tempo si facevano riunioni conviviali musicali, si ascoltava musica sacra e certamente si faceva musica negli incontri dell' Accademia della Valle di Blenio ( fra i musici vi erano l'organista e compositore Giuseppe Caimo e il musico Giovan Michele Gerbio che fu suo maestro, Rime, pp. 401 e sgg. ) ( cfr, Giulio Bora, Milano nell'età di Lomazzo e san Carlo: riaffermazione e sopravvivenza di una cultura, in AA. Rabbisch. Il grottesco nell'arte del Cinquecento, cit., pp. 37-56. Sui musici D.D.Bryant, Music in the Seventeeth Century, Cambruidge,1987 ) . Le possibilità di frequentare luoghi dove si faceva musica a Milano, da quella sacra in Duomo a quella profana nelle riunioni conviviali fra compagni per Caravaggio poteva, specie dopo aver lasciato Peterzano nel 1588, essere piuttosto varia e a Milano il pittore avrebbe potuto farsi una cultura musicale importante già prima di Roma. Josephus Gallus ( Giuseppe Galli ), era nato come Caravaggio nel 1571 e come il pittore a Milano. Attivo sin da giovane come organista e musico aveva scritto di musica sacra e di profana, componendo canzoni e madrigali. Nel Quellen Lexicon del 1901, che contiene l'elenco con note biografiche dei musicisti, al vol IV, p. 138, si legge Gallus Josephus Mediolansesis Somachaeus, che è autore di una " sacra operis musicis alternis moduli Concinendi Liber I, Milano, Francesco e Simone Tini, 1598" , Altra musica strumentale venne pubblicata da Hassler, a Norimberga, fra 1600 e 1613. Un pittore giovane, ambizioso e già ben inserito fra fine anni'80 ed inizi del '90, nel sistema musicale milanese. Caravaggio avrebbe potuto conoscerlo, frequentarlo, diventarne amico. Naturalmente non vi sono agganci documentari possibili e difficilmente se ne potrebbero trovare, tuttavia l'ipotesi del Borla non è peregrina. Giuseppe aveva composto alcuni libri di musica sacra e profana e l'editore Tini, nel 1598, aveva stampato un suo primo Libro di musica contenente anche esempi di spartiti sacri e profani, fra i quali anche alcuni di Arcadelt. Nel Suonatore di liuto la supposta B gotica istoriata, più che una L potrebbe essere una G. Nella versione dell'Ermitage il "Libro di musica" è meno curato, sembra più una raccolta di fogli rilegati; vediamo inoltre molto chiaramente il capolettera della supposta scritta Bassus.               


Sopra: Caravaggio, Suonatore di Liuto, c. 1595-96, Museo dell' Ermitage di Samn Pietroburgo, dettaglio degli spartiti e del libro di musica.Sotto: Caravaggio, Suonatore di Liuto, 1595-96, Metropolitan Museum di New York, dettaglio


Nel dipinto del Metropolitan il cosiddetto Libro di musica appare più curato, la copertina sembra essere di cuoio ed evidenzia una raffinatezza da mettere in rapporto con lo stesso tappeto orientale posto sul tavolo. Si tratta della versione per il cardinale Del Monte, arricchita da strumenti della collezione del prelato ( lo stesso tappeto del tavolo doveva essere un tessuto da collezione pregiato, un Ushak, Maurizio Marini, cit., p. 382 ), gli spartiti ( nel dipinto ex Giustiniani sono presenti 4 composizioni, madrigali, di Jacques Arcadelt tratte dal Libro primo de'madrigali a quattro voci pubblicato a Venezia nel 1539 , nel dipinto ex Del Monte, ancora un madrigale di Arcadelt, uno del compositore fiammingo Jacques Berechem e uno di Francesco Layolle, organista e compositore fiorentino maestro di Benvenuto Cellini.) potrebbero essere delle esempi raccolti nel Libro di musica , un libro di canzoni e madrigali di rapido uso per suonare e cantare. Se guardiamo un ingrandimento del termine Bassus nel dipinto dell'Ermitage, non solo non fatichiamo molto a riconoscere una G nel capolettera gotico istoriato sull'esempio delle carte da musica e nei manoscritti musicali miniati, ma nemmeno l'intera parola Gallus.


Ingrandimento della parola che si legge sulla copertina del Libro di Musica, si noti come non sia difficile leggere Gallus

Se, seguendo il Borla ( Savino Borla, Op. Cit., p. 162 ), confrontiamo la carta da musica in un'opera romana come Amore vincitore dipinto da Caravaggio per il marchese Giustiniani notiamo innanzitutto che la carta appare realizzata con una pennellata leggera, mentre quella degli spartiti milanesi risulta essere più spessa e rigida, inoltre è importante notare come la lettera presente nello spartito è la V ( che allude anche al nome del committente, il marchese Vincenzo Giustiniani ) in carattere lapidario romano senza istoriatura come è invece presente negli spartiti musicali che crediamo milanesi, che hanno capilettera gotici istoriati. La stessa V, nel dipinto ex Giustiniani del museo dell'Ermitage è accuratamente istoriata e le V degli spartiti spartiti musicali di Josephus Gallus pubblicati nel " Libro di musica" nel 1598 sono appunto dello stesso tipo.  

Particolare del "Libro di musica" dell'Amore Vittorioso. Si noti la V lapidaria romana non istoriata

Particolare del Libro dei Madrigali di Claudio Monteverdi edito a Venezia nel 187. Si noti la A istoriata in alto a sinistra


caratteri a stampa gotici rinascimentali, la B è la 2, la G la 5


E' interessante considerare, a mio avviso, che il Libro primo de'madrigali a quattro voci di Jacques Arcadelt, pubblicato a Venezia nel'39, venne pubblicato a Milano nel 1596-1597 dallo stesso editore, il Tini, del Libro di musica di Josephus Gallus, Giuseppe Galli. Mentre venne pubblicato a Roma soltanto soltanto nel 1627, da Paolo Masotti. Naturalmente a Milano e a Roma potevano circolare copie veneziane già dagli anni'40 e il cardinal Del Monte, appassionato di musica e musico dilettante ( cantava alla spagnola e suonava la "chitarriglia" )  avrà certo potuto acquistarne una copia per la sua biblioteca e certo ne aveva una il marchese Giustiniani, anche lui, che era anche teorico musicale. E' importante però, a sostenere l'ipotesi che nel Libro di musica  di Francesco Galli vi fossero spartiti di Arcadelt, il fatto che l'editore Tini, che nel 1539 aveva pubblicato il " Libro di musica", poco dopo che pubblicasse l'intero volume di  Arcadelt. Sempre a Venezia nel 1539 vennero pubblicati i madrigali di Jacques de Berchem e nel 1541 il Libro primo de' madrigali di Francesco de Layolle. Quest'ultimo, detto anche Aiolli, nato a Firenze il 4 marzo 1492 era molto noto a Firenze e amico di artisti, Andrea del Sarto lo aveva raffigurato in un affresco della SS. Annunziata e anche il Pontormo lo ha ritratto in un dipinto agli Uffizi ; lasciata Firenze, dove era organista all'Annunziata in seguito alla congiura antimedicea del 1521, riparò a Lione presso la comunità fiorentina dove divenne organista della chiesa di Notre Dame de Confort.         


Jacopo Carucci o Carrucci detto il  Pontormo, Ritratto di Francesco Aiolle, 1518, Firenze, Museo degli Uffizi 

Nel dipinto del Pontormo che vediamo qui sopra, il musico, che ha lo sguardo rivolto allo spettatore, tiene aperto fra le mani un libro di musica. Non fu solo la fama di Francesco a spingere i pittori a ritrarlo, ma anche la frequenza che il musico aveva con gli artisti. Non è certo, ma è possibile, che Caravaggio, conoscendo i madrigali del musico ne conoscesse anche il ritratto attraverso stampe e copie che certamente circolavano nelle botteghe e negli studi degli artisti. A proposito di ritratti di musici, ci viene comodo porre l'attenzione su Francesco Canova o Canona detto comunemente Francesco da Milano o Francesco del Liuto  ( 1497-1543 ), il più grande compositore di madrigali per liuto al punto da essere soprannominato, come Michelangelo, il Divino. Allievo di Angelo Testagrossa, liutista di Isabella d'Este a Mantova. Nel 1520 si trasferì a Roma dove fu liutista ufficiale di tre papi, Leone X, Adriano VI e Clemente VII, nel 1528 lasciò Roma per Piacenza e Milano dove fu organista. Nel'30 fu di nuovo a Roma al seguito del cardinale Ippolito de'Medici, nel'35 fu liutista ufficiale di Paolo III e seguì il papa a Nizza e soggiornò a Parigi molto ammirato dal re Francesco I. Scrisse molta musica per liuto e le sue composizioni polifoniche per questo strumento erano molto famose in tutta Europa; morì a Milano nel 1543. Di questo musico possediamo un ritratto di anonimo che è conservato all'Ambrosiana.

Anonimo, Francesco Canova o Canovi detto Francesco da Milano, c. 1535, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

Come il precedente musico anche il Canova è rappresentato con il libro di musica ( lo sta sfogliando) che si presume sia composto da pagine con sue composizioni per liuto ( l'indicazione in alto Francesco del Liuto, rimanda a musica per questo strumento ), strumento però che non è raffigurato mentre lo suona ( viene rappresentato il compositore e non il liutista ), mentre la mano sinistra tiene fra le dita un flauto dolce. Il dipinto era certo noto a Milano, come note erano le composizioni del musico. Ma Caravaggio doveva aver visto anche un dipinto di Leonardo da Vinci, del 1485, conservato nella Pinacoteca Ambrosiana, in cui si mostra un altro musico famoso, forse Franchino Gaffurio organista e direttore della Cappella Musicale di Milano, probabile anche se non certo conoscente se non amico di Leonardo, cantante, suonatore di lira e costruttore di strumenti musicali, oppure Atalante Migliorotti  ( 1466-1532 ), allievo e sicuramente amico di Leonardo che lo portò con lui a Milano alla corte degli Sforza, suonatore della lira da braccio, cantante di qualità alla corte Gonzaga; a Mantova avrebbe dovuto interpretare la parte del protagonista nell'Orfeo del Poliziano con scene di Leonardo, che non andò a buon fine per impegni del musico a Venezia; può essere interessante sapere che nel 1535 questo musico-cantore era in relazione con Giulio Merisi, muratore, : " essendo andato a Perugia, stimò a' 9 di giugno in compagnia di Giulio dei Merigi da Caravaggio muratore[...], parte del lavoro del palazzo del cardinale Armellino, architettato e costruito da Giovanni Mangone, fiorentino" ( cfr. Gregorio Moppi, Migliorotti Atalante, in DBI, vol. 74, 2010; sul musico Anthony M. Cummings, The mecenas and the madrigalist: Patrons, patronage, and the italian Madrigal, American Philosophical Society, New York, 2004.). Su questo musico ( di lui e dell'amicizia con Leonardo parla con qualche riga l'Anonimo Gaddiano ) non sappiamo che poche cose, solo che era molto impegnato fra Roma, Mantova, Milano, Venezia come cantore e musico grande suonatore di quella lira che Leonardo aveva più volte perfezionato. Il ritratto Leonardo glielo fece sicuramente ( annotazione nel Codice Atlantico c. 888r ex 324r ), non si sa se però è perduto o sia quello dell'Ambrosiana. Comunque Caravaggio dovette avere notizie del musico per la fama lasciata a MIlano e per il suo rapporto con Leonardo. Dal documento di cui sopra apprendiamo che era amico di Giulio Merisi da Caravaggio muratore o capomastro come Fermo ( difficile che fosse Giulio Merisi l'architetto di palazzo Spada Capodiferro a Roma, dato che l'architetto di palazzo Armellino o Armellini a Perugia è ufficialmente Giovanni Mangone ). E' chiaro che sono tanti gli intrecci di nomi simili e gli interscambi sono facili ( forse lo stesso Giulio Mancini si sbagliò attribuendo a Fermo Merisi un'attività di architetto confondendolo con Giulio Merisi ), però il fatto che questo Giulio Merisi appartenesse alla larga famiglia dei Merisi di Caravaggio e che fosse architetto a Roma e che si recasse a Perugia a lavorare in un palazzo progettato da un altro architetto caravaggino come Giovanni Mangone, e che fosse amico del musico amico di Leonardo molto noto a Milano mi sembra abbastanza significativo nel discorso sulle conoscenze musicali di Michelangelo che stiamo cercando di tratteggiare. Va inoltre segnalata e lo si riprenderà in seguito la conoscenza che il giovane Caravaggio poteva avere degli scritti in cui Leonardo parla del rapporto fra musica e pittura ( nel Trattato della pittura questa che soddisfa l'occhio mostrando il tutto in un solo tempo è superiore alla poesia e alla musica, che necessitano di varietà e che si mostrano a membri, cfr. Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, Milano, Rusconi, 2002, pp. 39- 40 anche se, nonostante la chiara superiorità la musica è  sorella della pittura ). Inoltre erano certo note, attraverso i disegni che circolavano in bottega in copia le idee progettuali e le forme sugli strumenti musicali, quali la lira da braccio e la viola e certamente si conoscevano le descrizioni e se ne aveva ancora l'eco delle feste musicali degli Sforza allestite dal genio di Vinci ( cfr. Emanuel Winternitz, Leonardo e la musica, in AA. VV. Io Leonardo, Milano, Mondadori, 1974, pp. 111-134 e Maria Luisa Angiolillo, Leonardo. Feste e teatri, SEN, Napoli, 1979; K, Trauman Stenitz, Leonardo architetto teatrale e organizzatore di feste in IX lettura vinciana, Firenze, 1970 )


Leonardo da Vinci, Ritratto di musico ( forse Atalante Migliorotti o Franchino Gaffurio ), 1485, Milano, Pinacoteca Ambrosiana
     
Il personaggio raffigurato sia esso il Migliorotti ( allievo e amico ) o il Gaffurio ( Leonardo aveva disegnato e fatto incisione in legno per il suo trattato Pratica della Musica  ) o il franco-fiammingo Josquim des Prez ( o Desprez ) , anche lui al servizio degli Sforza al tempo di Leonardo e quindi da lui sicuramente conosciuto per le grandi qualità di compositore ( ma se il dipinto è del 1485 Joacquim dall'anno prima era a Roma con il cardinale Ascanio Sforza ) ( sul Gaffurio, Fabio Fano, Vita e attività sul musico teorico e pratico Franchino Gaffurio in Arte Lombarda,XV,2, 1970, pp.49-62; su Des Prez, C. Fiore, Josquim Des Prez, Palermo, 2003  ), evidenzia un aspetto serioso e malinconico, con uno sguardo spostato verso destra e non verso lo spettatore, un abito elegante e contemporaneo. In mano il personaggio regge un piccolo spartito ingiallito e consunto. Un recente restauro ha potuto mettere in luce il foglio da musica che sinora era poco leggibile: sembra si tratti del Canticum Angelicum ( si leggono le parole abbreviate Cant... Ang...poco sopra il superstite rigo musicale ), effettivamente scritto da Franchino, Angelicum ad Divinum Opus . Si tratterebbe quindi non del Migliorotti, ma del Gaffurio a Milano nel 1485. Caravaggio potrebbe aver visto questo ritratto di musico, ma la scelta di Leonardo, nell'aspetto e nella direzione dello sguardo, come nella fisiognomica seriosa e malinconica non lo conquistano e così gli altri ritratti di musici che abbiamo visto, nella loro espressione professionale e nell'apparente carattere distaccato e talvolta intristito come nel dipinto del Pontormo;  Caravaggio preferisce il coinvolgimento, la passionalità, la teatralità, i primi due aspetti li vediamo ancora una volta in esempi veneti in due ritratti di musici, uno di Giorgione e uno di Tiziano:

Giorgione, Cantore appassionato, 1508-1510, olio su tela 102x78, Roma, Galleria Borghese
Tiziano, Ritratto di musico, dat.inc.1515 o 1545, Roma, Galleria Spada

Il primo mostra un ritratto frontale con gli occhi socchiusi le labbra che si stanno aprendo ad un canto poassionale, che viene dal cuore, che si esprime con l'anima, come sottolinea la mano sul petto che si sta per gonfiare: ci colpisce la camicia bianca come quella del Suonatore di Liuto anche se di fattura più semplice e la mantiglia appoggiata sul braccio destro che nel Suonatore, di colore nero a fare da contrasto con la camicia è appoggiata a sinistra. Sulla testa il cantore ha un cappello strano a falde larghe, mentre alle spalle vi è un abbozzo di un altro volto, un pentimento ( ricordiamo che come Caravaggio Giorgione non faceva un disegno preliminare, ma operava direttamente sulla tela con il pennello ); il secondo mostra un musico in abito nero, piuttosto abbondante nelle maniche, in basso esce una porzione di camicia spiegazzata di un colore molto bianco e anche qui vi è il contrasto con il nero dell'abito, i capelli sono abbondanti sulle spalle e la posizione è laterale, davanti ad uno spartito aperto sul tavolo, arrotolato e tenuto fermo con la mano; lo sguardo è come in Caravaggio rivolto allo spettatore, leggermente sornione e complice. Sul fondo che è scuro e piatto, notiamo la presenza di uno strumento musicale, forse un liuto.

              Nel Suonatore di Liuto ( nella sua iconografia di base del musico che doveva essere presente anche nel dipinto perduto ex Del Monte, come nella replica del Metropolitan  e nel dipinto ex Giustiniani ), il musico non ci sembra possa essere il castrato spagnolo Pedro de Montoya che frequentava casa Del Monte ( 1585-1663 ) , cantava nel Coro di voci bianche della Cappella Sistina. ( cfr. per l'identificazione Franca Trincheri Camiz, La musica nei quadri di Caravaggio. in AA, VV. Caravaggio: nuove riflessioni, Quaderni di Palazzo Venezia, 6 ( 1989 ), pp. 199-220 e Idem, The castrato singer: from informal to formal portraiture, in Artibus et Historiae, XVIII,1988,pp. 171-186 ) e aveva ricevuto lezioni di canto da Emilio de'Cavalieri ( cfr., W. Kirekendale, Emilio de'Cavalieri"gentiluomo romano", Firenze, 2001; Sybille Ebert Schiffer, cit., p. 34 ); ritratti di castrati cantori risalgono al Settecento, in cui si distinguono quelli di Farinelli di Jacopo Amigoni e del Giacquinto; volendo arretrare nel tempo l'unico ritratto di un evirato cantore è quello di Marcantonio Pasqualini ( Marcantonio Pasqualini incoronato da Apollo  )di Andrea Sacchi che risale al 1641 ( Dinko Fabnris, Il ciclo musicale del Caravaggio...in La musica al tempo del Caravaggio, cit. p. 73 ) , ma si tratta di un dipinto che esalta il bel canto e la divina bellezza classica, l'evirato cantore e Apollo ( ispirato all'Apollo del Belvedere ), un dipinto allegorico lontanissimo dall'opera di Caravaggio. Ed anche il ritratto del famoso Farinelli di Amigoni è diverso, si tratta di una rappresentazione realistica della fama del cantore e quella del Giacquinto è un'altra rappresentazione della fama di Farinelli attraverso una posa da personaggio importante, arrivato, con accanto un'allegoria musicale della stessa fama (  su questi ritratti si veda Elena Bengini, Il ruolo di Caravaggio nella definizione della tipologia ritrattistica dell'evirato cantore, in in Idem, pp. ,  1-11 ) . Non mi sembra che il ritratto di Caravaggio che dovrebbe rappresentare l'evirato cantore in atto di cantare ( o di iniziare a farlo ), con la lingua fra le labbra, sia un modello per Sacchi, che aveva un totale rifiuto dell'immorale rivoluzionario e anticlassico Caravaggio e non sembra poi che qui Pasqualini mostri la lingua fra le labbra, il viso serio, anzi rigoroso nella sua professionalità guarda con sfrontata sicurezza lo spettatore affermando la sua autorità musicale e così è per Farinelli. Il dipinto del Caravaggio è invece immerso in un'atmosfera sognante, passionale, straniante, teatrale, più vicino al musico di Giorgione. E se poi vogliamo dirla tutta il liuto ha una chiave di tenore e il castrato canta da soprano o da contralto ( se fosse veramente chiave di basso come alcuni leggono sul libro di musica, sarebbe addirittura offensivo per il povero Montoya, che mai avrebbe potuto cantare in questa chiave ). Possibile che possa trattarsi come sostiene Frommel dell'amico e forse amante di Caravaggio, Mario Minniti, riconoscibile grazie al confronto con un ritratto del pittore siracusano inciso nelle Memore dei pittori messinesi del 1821 ( cfr. . C.L. Frommel, Caravaggio, Minniti e il Cardinal Francesco Maria Del Monte, in S. Macioce (a cura di), Michelangelo Merisi da Caravaggio: la vita e le opere attraverso i documenti, atti del convegno,   Roma, 1996, pp. 18-41 ). Ma sebbene suggestiva, anche per l'espressione languida e passionale, l'identificazione appare poco probabile ( più convincente è quella del Ragazzo con canestro di frutta e soprattutto del liutista del Concerto di giovani, dipinto per il cardinal Del Monte. E' comunque da considerare l'espressione femminea in chiave omoerotica pure sottolineata da Frommel che il liutista-cantante ha tanto nel Suonatore quanto nel Concerto , che però, a mio avviso mostrano modelli diversi. Si è pensato ad un autoritratto del Caravaggio ( A. Czbor, Autoritratti del giovane Caravaggio, in Acta Hisoriae Artium Academiacae Scientiarum Hungaricare, II, 1955, pp. 201-213 ). Ma come sappiamo dal barbiere testimone al processo del luglio 1597, che dichiara di conoscere Caravaggio da sei mesi all'incirca ( da dicembre-novembre del 1596 ) e che è " un giovenaccio grande di vinti o vinticinque anni con poco di barba negra grassotto con ciglia grosse et occhio negro "( cfr. S. Corradini, Maurizio Marini, The Earliest Account of Caravaggio in Rome, in The Burlington Magazine, 140, n. 1138, gen. 1998, p. 26 ); pertanto non ci siamo ancora: il Suonatore non ha certo venticinque anni ( calcolando la conoscenza al 1596 ), è glabro, non è grassotto e non ha ciglia grosse ( e si vedano i ritratti di Etienne Baudet e di Ottavio Leoni più vicini a questa descrizione ). Più convincente l'autoritratto, forse ringiovanito e sbarbato che si vede nella Musica dietro il liutista, che mostra una facies più vicina a quella del Caravaggio. E quindi non ci siamo proprio. E se fosse un autoritratto giovanile di quando il pittore stava a Milano? O ancora, se fosse un musico-cantore suo conoscente di quando stava a Milano dai tratti effeminati? Oppure che invece possa essere un'idea teatrale di musico all'antica, immagine allegorica della perfezione cosmica ( il liuto ne è tipica allegoria ) e immagine della passione amorosa espressa da un triste languore per un amante perduto? Il musico porta una parrucca ed ha un abito teatrale, non è solo un cantante-suonatore è anche un attore. E' possibile che Caravaggio avesse voluto rifarsi ad un'atmosfera passata, ad un lirismo passionale, amoroso, sognante, ad una festa musicale degli Sforza, una di quelle per le quali Leonardo aveva inventato prestigiosi meccanismi teatrali e persino costumi e parrucche? Cosa sapeva del progetto dell' Orfeo? ( cfr. Maria Luisa Angiolillo. Leonardo. Feste e teatri, Napoli, SEN, 1979 ), aveva visto i disegni leonardiani del Codice Atlantico conservati all'Ambrosiana? Aveva informazioni sugli Intermezzi fiorentini e sulla Camera dei Bardi di Firenze? Il fatto che Caravaggio non usi spartiti comuni all'epoca del dipinti ma solo di autori che erano stati di moda tempo prima e strumenti arcaici, come il violino di tipo antico e lo stesso liuto ( che è del tipo a sei corde o cori del primo Cinquecento mentre dagli anni '80 il tipo comune è quello a otto cori ), fa pensare che è del tutto sbagliato pensare che il pittore si fosse rifatto a musica e spettacolo solo del suo tempo. Infine, Caravaggio conosceva gli studi grafici fatti per costumi all'antica per ingressi trionfali e mascherate che facevano parte dell'attività di bottega come quelli che sono conservati nel Libro del Sarto della Fondazione Querili Stampalia di Venezia? Guardando al solo primo momento romano ci si è dimenticati che doveva essere stato un passo all'indietro per il pittore rispetto all'ultimo periodo milanese ( almeno a prima del vuoto di anni privo di documentazione che abbiamo attribuito ad una possibile azione criminosa e alla fuga precipitosa per Venezia ) che doveva ancora essere fecondo di attività artistica per il pittore che si era messo in proprio.

             Il Suonatore di liuto  sia nelle dimensioni che nella tematica ha come noto un rapporto stretto con la Musica di alcuni giovani dipinto per il cardinal Del Monte; è nostra convinzione che sia opera romana sebbene possa fondarsi su richiami iconografico-culturali lombardo-veneti: il gruppo di amici che sono intenti a preparare in uno spazio angusto e in un'atmosfera sospesa e sognante un concertino in abiti all'antica come quelli che si facevano a palazzo Madama dal cardinale è l'istantanea di una scenetta privata, da camera per un pubblico ristretto prevalentemente aristocratico come ve ne era nella Roma di fine secolo. Ne parleremo pertanto in seguito affrontando le prime opere romane. Vi è però un altro dipinto che presenta un carattere musicale, anche se si tratta più che altro di un inserimento di una figura con strumento musicale, un angelo, nel dipinto Riposo nella fuga in Egitto. Silvino Borla la crede dipinta in lombardia, a Milano, fondandosi sul paesaggio chiaramente d'impronta veneta e su alcuni tipi di piante, il rovere e il tasso barbasso, che però sono comuni anche sull'appenino e in area laziale. Certo è un mezzo mistero come un'opera così perfetta possa essere fatta agli inizi quando il pittore si trovava in difficoltà economiche, tuttavia crediamo che le opere a più personaggi ( ciò vale anche per la Musica di alcuni giovani ), siano il prodotto di una crescita artistica e tecnica del pittore e pertanto rimandiamo anche questo alle prime opere romane.

              Esiste un altro Suonatore di liuto  attribuibile a Caravaggio che non è riferibile iconograficamente ai due ex Del Monte e ex Giustiniani, si trova nella pinacoteca di Monaco di Baviera e mostra un suonatore che emerge dal buio del fondo intento a suonare. E' un'opera poco studiata e in gran parte non accettata nel catalogo dell'artista ( si preferisce attribuirlo ad un anonimo Maestro del Suonatore di liuto, databile al 1595-96 ), ma vi sono alcune probabilità che vi appartenga ( la luce che si insinua fra le dita realizzando virtuosismi di luce-ombra e il volto malinconico e severo del giovane musico diviso da luce e ombra sembrano essere un segno dell'autografia del maestro ). Se si confronta questo liutista con quello che abbiamo così ampiamente discusso notiamo un'immediata differenza: nessuna aria passionale e sognante, nessun languore amoroso, nessuna parrucca e abito teatrale solo la raffigurazione realistica di un musico forse contemporaneo. Se fosse di Caravaggio il maestro avrebbe qui raffigurato un vero musico intento a suonare ( non un cantore-musico; l'assenza apparente delle corde del liuto è dovuta ad un deterioramento temporale ) e non una sua idealizzazione, forse lo ha fatto quando ancora era a Milano, ma proprio questo realismo, questa mancata teatralizzazione della figura ci fa nascere il sospetto che sia estraneo a Caravaggio attento o meglio trascinato verso questa cifra stilistica.

Caravaggio ? ( Maestro del Suonatore di Liuto ) , Suonatore di liuto, 1595-96, Alte Pinakoteke, Monaco di Baviera 



.
































































































































































































































































































































































































































































































































               

mercoledì 15 marzo 2017

Il Primo Tempo: Milano e Venezia : la bottega, gli occhi, la fuga




                                         Il primo tempo

                                                                  Milano e Venezia

              Fra ortodossia religiosa, repressione, vita di bottega e possibili fughe                         trasgressive fra gli accademici cultori di Bacco, la malavita locale e                                                      un ipotetico viaggio a Venezia.



            Il 25 settembre del 1589 Michelangelo Merisi è a Caravaggio. C'è da vendere un lascito paterno del quale la madre Lucia possiede i diritti di sfruttamento e vendita; l'appezzamento di terreno, situato nella campagna coltivata ad orti e vigneti, può essere venduto tramite l'autorizzazione della madre e riscattato a volontà del venditore. Il pittore ha già passato i quattro anni stabiliti dal contratto di apprendistato nella bottega del Peterzano; forse ancora collabora da un anno come pittore, in ogni caso può rendersi indipendente. La vendita probabilmente è dovuta ad una necessità di liquidi per poter organizzare uno studio nella casa milanese dove va ad abitare in S. Vito in Pasquirolo. Caravaggio dichiara di avere 18 anni, quindi per le leggi del tempo è ancora minorenne ed ha bisogno di un tutoraggio, che viene applicato a garanzia dalla madre Lucia. La questione dei terreni paterni e materni e della loro vendita non doveva essere tanto specchiata e semplice: c'erano i figli di primo letto di Fermo, c'erano i fratelli di Michelangelo, tutti aventi diritto. Pertanto vi è da  credere che le cose fra fratelli non filassero proprio lisce lisce, nel senso che potevano esservi rivalità e gelosie anche accese, sebbene non possediamo documentazioni in merito ( ma lettere fra Merisi e i fratelli non si sono proprio conservate, qualora fossero esistite ). In ogni caso la vendita va a buon fine e non si ha notizia di strascichi. Michele ritorna a Milano. L'anno dopo la documentazione ci fa sapere che i fratelli hanno da pagare dei debiti e quindi sono necessarie nuove vendite ( 20/6; 3/7, con il fratello Giovan Battista ). Lo stesso anno il 29 ottobre, la madre malata, fa testamento e il 29 novembre muore a Caravaggio. E' possibile che dopo la morte della madre i contrasti fra fratelli siano aumentati e forse l'assenza di corrispondenza può essere motivata anche dal fatto che per litigi non si scrivevano ( i documenti in Cinotti, 1973 e in Macioce, 2010 ). L'11 maggio 1592 i fratelli più grandi, Michelangelo, Giovan Battista e Caterina, si spartiscono i beni lasciati dalla madre. A Michelangelo, il maggiore di età, che ha già ricevuto dell'89, spetta, per volontà testamentaria, la parte minore dei beni che il pittore provvede a vendere subito per averne dei liquidi da spendere ( Cinotti, 1973, p.32 ). Da questa data non c'è più altra documentazione che riguardi il pittore sino al noto episodio del ritrovamento del ferraiolo da parte di Caravaggio a Roma nel 1597 e della testimonianza del barbiere che dichiara nel luglio del 1597 di conoscerlo già da alcuni mesi ( dalla quaresima passata, cioè dal marzo del 1596 ed è possibile che fosse arrivato in città all'inizio dell'anno:Francesca Curti, Sugli esordi di Caravaggio a Roma. La bottega di Lorenzo Carli e il suo inventario, in AA. VV. Una vita dal Vero a cura di Lo Surdo, Verdi, Curti, Roma, 2010, pp. 65-76 ) : quindi dall'11 maggio del 1592 sino all'inizio del 1596 Caravaggio non è documentato né in Lombardia, né a Roma né altrove. Torneremo a parlare di questo spazio temporale vuoto. Ora guardiamo alla bottega e alla vita a Milano dal 1585 al 1589.

                Che cosa si insegnasse a bottega è testimoniato da Bernardino Campi nel Parer sopra la pittura del 1584 ( lo stesso anno in cui Michele inizia a lavorare dal Peterzano ). Sin dall'inizio del suo trattatello ( ed. mod. Einaudi, Torino, 1988 ) ( che può essere paragonato e integrato con quello  di Giovan Battista Armenini, De' Veri precetti della pittura , in seconda edizione del 1587, ), l'autore spiega che il giovane pittore deve iniziare copiando ( disegni e pitture ), che poi faccia di rilievo ( degli autori classici e moderni ), infine che studi partendo da modelli viventi. Finita questa fase il pittore deve usare dei modellini in cera ricavabili da modelli in gesso, di modo che se ne possano fare più di uno. I modellini andranno poi poste su di un'asse come una specie di teatrino di figurine, per poi trasferire il tutto ai cartoni sarà necessario servirsi della graticola ( è un ingegnoso sistema di trasposizione  figurativa che consiste che sistemare dei chiodini in prossimità delle figurine di cera di modo da creare dei quadratini tramite l'ausilio di fili che uniscono tanti piccoli spazi formando una quadrettatura o graticola, appunto ). Secondo l'Armerini, sembra che Michelangelo Buonarroti lavorasse secondo queste modalità di bottega quando iniziò la composizione del Giudizio Universale ( Alexander Ragazzi, Un episodio nella storia dei modelli plastici ausiliari. Il Parer sopra la pittura di Bernardi Campi, www.Accademia. edu. 2016, pp. 125-126 i modellini erano già stati usati da Piero della Francesca ). Non sappiamo se Peterzano usava i modellini, ma essendo una pratica di bottega, ciò era del tutto plausibile. Quello che qui interessa è l'attività del copista. L'allievo deve saper ben copiare i maestri, i disegni ( e dunque saper fare altri disegni ) e le pitture. Al di là di autentiche irritanti bufale gonfiate dai mass media sui famosi Cento (? ) disegni che sarebbero di Michelangelo Merisi da Caravaggio conservati nel Castello Sforzesco di Milano, Gabinetto dei disegni, mischiati ad altri del Fondo Peterzano e che invece sono di copisti cinque-seicenteschi ( ma indirettamente si dimostra appunto come fosse diffusa l'arte della copiatura grafica ) ( E-Book Adriana Conconi, Maurizio Belardinelli Curuz, Giovane Caravaggio. Le cento opere ritrovate. La scoperta che rivoluzione il sistema Merisi,  2012. La sentenza del maggio del 2013 condannava gli autori per diffamazione vedendo la vittoria del Comune di Milano e della Direzione del Gabinetto dei Disegni del Castello Sforzesco di Milano, Aldo Masoero, Il giornale dell'arte, com, 24 maggio 2016. AA.VV. Simone Peterzano e i disegni del Castello Sforzesco, a c. di Francesca Rossi, Milano Silvana, 2013 ), occorre arrendersi all'evidenza che non esiste nessun disegno sicuro realizzato da Caravaggio. Mancando un disegno originario firmato o sicuramente attribuibile non è possibile fare raffronti e paragoni, pertanto al momento non si sa se Caravaggio disegnasse o meno. Certo però che aveva disegnato. La bottega era una scuola d'arte e il Peterzano era un maestro severo e la pratica di bottega prevedeva il disegno come priorità. E' addirittura possibile che proprio questa pratica così rigorosa del disegno imposta dal maestro ai suoi allievi avesse fatto disamorare il Merisi dall'applicazione sistematica del disegno per la composizione artistica e gli avesse fatto preferire la tecnica del grafito sull'imprimitura della tela ancora fresca di preparazione fatta con la punta di legno del pennello oppure attraverso l'uso del pennello stesso direttamente sulla tela. In ogni caso le radiografie mostrano l'uso frequente di incisioni, ad esempio, sono state rinvenute nella Resurrezione di Lazzaro e nel Sacrificio di Isacco. Un possibile disegno del Caravaggio a penna, bistro, acquarellato, è stato identificato in quello con la Vocazione di San Matteo, conservato agli Uffizi di stile lombardo-veneto, che Longhi credeva essere una mistificazione giorgionesca di Federico Zuccari e che altri attribuiscono a Claude Vignon, Maurizio Marini, invece lo ritiene un unicum caravaggesco ( Maurizio Marini, Disegnato dal Caravaggio, in Quadri e sculture, 29, 1998, pp. 41-44. ). A proposito della Vocazione di San Matteo, vi è un altro interessante disegno nel Museo di Capodimonte a Napoli.
Come ha scritto il Moir, per composizioni ampie, con più figure, non solo era necessario l'ausilio del disegno, ma proprio un disegno preparatorio era esplicitamente richiesto dal committente per verificare che la commissione era stata compresa e abbozzata secondo quanto richiesto ( A. Moir, Drawings after Caravaggio, in The Art Quarterly, xxxv,2, pp. 128-129 ). Il Caravaggio doveva aver preso visione della pratica presso la scuola del Peterzano per grandi composizioni come nella Certosa di Garignano. Il disegno di Capodimonte è una copia della Vocazione di San Matteo di Caravaggio dipinta nella tela di sinistra della  cappella Contarelli a S. Luigi dei Francesi a Roma ed è stato attribuito tradizionalmente al pittore napoletano di origine greca Belisario Corenzio. Si ritiene che Belisario, giunto a Roma per il Giubileo, nel 1600, avesse copiato la Vocazione allora esposta. Ma lo studio di Pietro Caiazza, tenderebbe a dimostrare che si tratti di un disegno elaborato nel quasi accessibile studio di Caravaggio a Roma. E' dunque possibile che in talune circostante il Merisi abbia avuto necessità di elaborare dei disegni che servivano anche per studiare delle varianti rispetto al risultato finale, come appunto dimostrerebbe il disegno di Napoli ( Pietro Caiazza, News Art.it/un disegno originale di Caravaggio.htl ).  

Belisario Corenzio? Vocazione di S. Matteo di Caravaggio c. 1600, Napoli, Museo di Capodimonte 

Di questo disegno e dell'altro degli Uffizi torneremo a parlare a proposito della Vocazione di San Matteo. Ora torniamo alla vita di bottega.

                  La bottega non è solo il luogo dove giovani imparano l'arte, è anche il luogo degli aiuti del maestro. Questi si serve dei giovani e ne mette in mostra i più ubbidenti e capaci perché è motivo di vanto e di distinzione per la bottega, che tanto è più ricca di talenti e richiesta tanto più riesce ad attirare altri giovani. Nella bottega il magister è quello che dirige, divide, organizza il lavoro degli aiutanti-allievi, non importano i singoli giovani, né contano come insieme, conta essenzialmente solo il magister  è solo lui che mette la firma, che riceve la committenza e che è ritenuto l'unico autore dell'opera indipendentemente dai collaboratori. Il maestro può cambiare e modificare disegni e figurazioni, può lasciar fare intere figure e riservarsi una sola piccola parte, in tutti i casi il merito e l'autenticità dell'opera è solo riferibile al maestro. Sulle botteghe rinascimentali di Milano ha scritto un saggio Janice Shell ( Janice Shell, Pittori in bottega. Milano nel Rinascimento, Torino, Alemandi 1995 ) al quale rimandiamo per informazioni dettagliate sull'insegnamento e le attività delle borreghe milanesi del Rinascimento. Qui basti dire che i giovani aiuti-allievi dovevano familiarizzare con le tecniche, dall'affresco al dipinto su tavola a quello su tela, dal paesaggio alla prospettiva, allo studio dei lumi e delle ombre, dallo studio del rilievo a quello dell'anatomia, dalla decorazione alle grottesche. Un giovane doveva essere dunque completo nella sua preparazione di modo da crearsi un curriculum spendibile una volta conquistata l'autonomia ed entrato nel mondo della professione e del mercato. Una bottega molto attiva, come quella di Simone Peterzano, era in grado di accettare e gestire più di una commissione contemporaneamente e sviluppare anche attività diverse, occuparsi dei grandi affreschi, come dei dipinti da cavalletto, di ritrattistica privata, di pale d'altare per cappelle di facoltosi committenti all'interno dello spazio sacro, come ad esempio in S. Fedele o in S. Maurizio a Milano.

                 In una bottega milanese non potevano mancare opere di Leonardo come il Trattato della pittura, copie di suoi disegnima di certo anche strumentazioni tecniche che Leonardo stesso aveva inventato e accuratamente disegnato. Parliamo soprattutto dell'uso degli specchi che in seguito verranno adottati anche da Caravaggio. Nel campo dell'applicazione artistica e della prospettiva, già Brunelleschi aveva realizzato una scatola che conteneva un cartone dipinto disposto a rovescio che si poteva osservare attraverso un foro evidenziando, rimpicciolito, il Battistero di Firenze; cento anni più tardi, l'iconologo Cesare Ripa aveva perfezionato la scatola con l'ausilio di un secondo specchio. Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci avevano visto importanti applicazioni pratiche degli specchi nel campo del disegno e della prospettiva. Leonardo, nel 1515, in un foglio del  Codice Atlantico parla di una scatola o camera obscura munita di un occhio ( oculus artificialis ) a lente variabile capace di catturare un'immagine e di rifletterla capovolta ( perfezionata in seguito da Daniele Barbaro e soprattutto da Giova Battista della Porta nel suo Magia Naturalis ). Leonardo evidenzia l'importanza che ha l'uso degli specchi per la pittura: " Tu vedi uno specchio piano dimostrar cose che paiono rilevate, e la pittura fa il medesimo. La pittura ha una sola superficie, e il specchio è il medesimo...Tu pittore farai le pitture tue simili a quelle di tale specchio, quando è veduto da un solo occhio" . Nei Sei libri dell'ombra e della luce Leonardo raccolse centinaia di disegni che evidenziano gli effetti, in un'immagine raffigurata, della luce e dell'ombra e in un altro disegno del Codice Atlantico, fol. 1 mostra una macchina per disegnare in prospettiva o prospettografo che consiste in un vetro cui è fissato un foglio posto in verticale fra l'oggetto da ritrarre e uno schermo con un foro centrale. Il disegnatore guarda con l'occhio dentro il foro e riproduce l'oggetto "in posa". Circa quarant'anni dopo Durer riprodusse un altro prospettografo in  cui un operatore in questo modo riproduceva un liuto, ma si trattava di una variante di un'invenzione di Leonardo ( sull'uso di specchi e strumenti leonardeschi nelle botteghe, cfr. Ettore Camesasca, Artisti in bottega, Milano, Feltrinelli, 1966, pp.321-325. ).

Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, fol,1, Prospettografo, Biblioteca Ambrosiana, Milano

Roberta Lapucci si è interessata delle conoscenze di ottica e dell'uso degli specchi in pittura che Caravaggio avrebbe potuto trarre dall'ambiente artistico lombardo-veneto e dall'opera del napoletano Della Porta, esperienze pratiche che venivano comunemente usate nella bottega d'arte ( Roberta Lapucci, Caravaggio e l' ottica. Aggiornamenti e riflessioni in AA.VV Caravaggio e l'Europa a cura di Luigi Spezzaferro, Silvana, Milano, 2006, pp. 59-70 ). Nel 1548, nel suo Dialogo di pittura, Paolo Pino chiariva che anche la pittura, al pari della scultura poteva avere un aspetto tridimensionale descrivendo alcuni dipinti di Giorgione con figure più volte ritratte nello stesso specchio, come nel S.Giorgio di ubicazione ignota ( Lapucci, 59 ) . Ma si può indicare anche la Cortigiana e la Vanitas di Tiziano e il Triplice ritratto di Orefice di Lorenzo Lotto. Ma soprattutto il Ritratto di Gaston Foix di Girolamo Savoldo che si rifà ad un perduto olio di Giorgione, in cui il personaggio è ritratto tre volte ( di fronte, di tergo e di lato ), per dimostrare le possibilità della pittura, arte superiore alle altre. 


Lorenzo Lotto, Triplice ritratto di orefice,1525-35, olio su tela,  Kunsthistorisches Museum, Wien

Girolamo Savoldo, Ritratto di Gaston Foix, 1529, Musée du louvre, Paris


Grazie all'uso degli specchi in questo ritratto si trovano scorci e controscorci, proiezioni, contrazioni, uso di luci riflesse e disposizione di ombre ( Lapucci, 60 ). L'ipotesi della Lapucci consiste nel ritenere che Caravaggio, che avrebbe potuto conoscere il Della Porta tramite il conterraneo Giovan Battista Marino suo amico in casa Crescenzi a Roma ( ma l'ipotesi che lo avesse conosciuto anche prima a Milano non è da scartare e comunque poteva aver letto il De Magia naturalis e fatto esperienze nell'uso pittorico degli specchi a bottega con Peterzano ), non si serviva del disegno perché poteva dipingere direttamente già l'immagine proiettata sulla parete. Un effetto di distorsione dell'immagine per l'uso dello specchio è nel Fruttaiolo della Galleria Borghese a causa di un eccessivo allungamento del collo dovuto alla difficoltà di raddrizzare l'immagine proiettata come dinmostrato da Susan Grundy. Scrive il Bellori, con intento certo denigratorio, ma forse con conoscenza delle modalità reali di lavorare del Merisi : " Divolgando che non sapeva uscir fuor delle cantine e che, povero d'invenzione e di disegno, senza decoro e senz'arte, coloriva tutte le sue figure ad un lume sopra un piano senza digradarle" ( Gian Pietro Bellori, Le vite degli scultori, pittori et architetti moderni, Roma 1672, ed. 1976, p. 205 ) Una pittura solo da studio, segreta e con una sola fonte luminosa che cambiava nel corso della giornata con effetti sul modello da ritrarre: ciò è visibile nel volto del Ragazzo morso da un ramarro della Collezione Roberto Longhi di Firenze: il lato destro del volto appunto è più grande, più lungo e più buio, mentre il sinistro è più piccolo, più luminoso e ruotato verso lo spettatore ( Lapucci, 62 ). Era necessaria, per la correzione dell'immagine che si modificava una rifocalizzazione che poteva avvenire proiettando anche più parti di realtà.

Caravaggio, Ragazzo morso da un ramarro, Fondazione Longhi, Firenze
L'importante studio di Hochney sull'uso degli specchi e della camera scura nei pittori, di cui torneremo a parlare propone varie osservazioni sui possibili sistemi di rifocalizzazione usate per correggere gli errori che si venivano a verificare durante la composizione pittorica. A Milano l'interesse per l'ottica era piuttosto vivo grazie all'interessamento del cardinale Sfrondati, il quale, sviluppando talune considerazioni affrontate dal Concilio di Trento aveva parlato di un" far vedere il vero" , di privilegiare, dunque, il senso della vista. Caravaggio nella bottega del Peterzano e negli incontri che si facevano fra artisti, come afferma la Lapucci era in contatto con esponenti dell'intellighenzia meneghina, in particolare con Gian Paolo Lomazzo amico personale del Peterzano. Lomazzo, pittore e trattatista, che si era molto occupato dell'uso dei lumi e delle proiezioni nel suo Trattato era in contatto a sua volta con Girolamo Cardano e Giovan Battista Benedetti, matematico piemontese, amico a sua volta di Galileo e del matematico Guidobaldo Bourbon Del Monte, fratello di Francesco Maria Del Monte di Santa Maria, importante committente di Caravaggio, alchimista e collezionista di vetri e specchi che lui stesso era in grado di fabbricare. Nell'inventario delle cose del Caravaggio del 1605, risultano in possesso del pittore uno specchio convesso o a scudo e ben 11 pezzi di vetro, che dovevano essere delle lenti. Inoltre, sappiamo che il pittore era stato denunciato dalla sua padrona di casa in quanto aveva praticato un foro sul soffitto per lasciar penetrare dall'alto un fascio di luce, sebbene a questa data il pittore doveva essersi discostato dalle concezioni di Della Porta, per accostarsi, come afferma la Lapucci, a circoli pre-libertini vicini a Galileo ( Lapucci, p. 63 e p. 64 ). Centro produttore e diffusore di specchi era Venezia, all'isola di Murano; da Venezia partivano le commissioni di vetrerie per le botteghe, mancano, però, studi specifici sull'attività di acquisto dei materiali da lavoro e studio delle botteghe d'arte a Milano e a Venezia. Da quanto detto si può dedurne che il pittore nella bottega del Peterzano aveva a disposizione anche questa importante risorsa che poi, come si vedrà, gli tornerà particolarmente utile.

               Abbiam detto che Caravaggio conosceva Gian Paolo Lomazzo e se ne può dedurne che forse frequentava, magari segretamente, l' Accademia dei Facchini della Val di Blelio di cui il Lomazzo era abate ( si ritrasse anche in questo modo scherzoso, in un noto autoritratto la cui influenza sul giovane pittore si può vedere nel cosiddetto Bacchino malato della Galleria Borghese ).

Giovan Paolo Lomazzo, Autoritratto come Abate dell'Accademia dei Facchini della Val di Brelio, Milano, Brera



Come è noto il nume tutelare dell'Accademia era Bacco e gli accademici si rifacevano ad una ipotizzata Tomba di Bacco che altro non era che il Mausoleo di Costantina, figlia di Costantino I, dove i bassorilievi e un sarcofago, oggi ai Musei Vaticani, sono ricchi di temi legati alla coltivazione della vite e dunque al culto bacchico ( da cui il nome di Accademia dei Vignaioli ) . L'Accademia guidata da Lomazzo ( Compar Zarvagna ), aveva un carattere burlesco, grottesco e comico e ne facevano fede i Rabish del pittore, di cui si è detto sopra e le opere caricaturali di Bernardino Luini; ma vi partecipavano anche musici, attori ( la Compagnia dei Gelosi ), poeti e artisti. Fra questi anche Ottavio Semino, dal carattere bizzarro, rissoso, scontroso, non di rado violento sino alle estreme conseguenze, che presenta alcuni tratti in comune con l'esistenza border line del Caravaggio. In accademia si professavano dottrine proibite dalla Chiesa come quelle caballistiche o della Magia Naturale di Avicenna. E' chiaro che una frequenza di questo tipo, ipotizzabile per la conoscenza del Lomazzo, comporta una frequentazione alternativa e marginale di Caravaggio rispetto a quella rigidamente ortodossa in seno alla bottega del Peterzano, tutta orientata a seguire, certo anche per pura convenienza commerciale le indicazioni di Carlo Borromeo e di Gabriele Paleotti, imbevuti di retorica controriformistica, circa la composizione delle immagini sacre e il comportamento da tenere in genere nelle realizzazioni figurative. In Accademia si respirava tutta un'altra aria, un'aria trasgressiva e scanzonata in cui aveva largo spazio il grottesco e il comico, incarnato, questo dai Comici Gelosi e dalle loro commedie all'improvviso che, forse, Caravaggio aveva visto. Improvvisazione, apparente casualità, carattere spontaneo e asistematico delle rappresentazioni dei Comici erano visti come l'operazione immediata della natura senza il concorso dell'arte ( Elena Tamburini, I comici gelosi e l'Accademia della Val di Blenio, in Biblioteca Teatrale.Scritti e testimonianze in omore di Ferruccio Marotti, 2011, 97-98, pp. 175-195 ). Sebbene si tratti di operazioni culturali non propriamente trasgressive in quanto alla fine associate alla cultura dominante e alle concezioni teoriche dell'Ut pictura poesis, è importante notare come quel che si faceva in Accademia rappresentava una circolazione, poco consueta, di idee fra cultura alta dei letterati e bassa dei pittori, degli artigiani, dei comici e dei musici. Come ha sottolineato Elena Tamburini, nelle scelte dell'Accademia non mancano riferimenti al delirio bacchico, all'attività dominata dal furor platonico, il furor poeticus in preda all'ebbrezza. La cifra delle espressioni compositivi è la casualità e l'improvviso anche in pittura ( è il caso di Aurelio Luini, che dipinge in preda al suo furor creativo, o del pittore Paolo Camillo Landriani, pittore all'improvviso ), che comporta l'eliminazione del disegno preparatorio fondamentale nella cultura pittorica fiorentina. Il rapporto fra artisti, artigiani, poeti, comici in  questa Accademia è molto stretto: un'attrice letterata come Isabella Andreini intratteneva rapporti intellettuali con i principali rappresentanti dell'Accademia ed era considerata un importante punto di riferimento. I Rabisch del Lomazzo, sono testimonianza di questi rapporti che porta i bizzarri accademici poeti, pittori e comici a condividere nella strampalata lingua mista di vari dialetti ( una sorta di Grammelot come quello portato al successo da Dario Fo ). Il rapporto dell'Accademia con la Commedia dell'Arte è molto fecondo e le incisioni che illustrano le scene e i personaggi dell'Arte ( almeno alcuni di essi ) , noti come Recueil Fossard , fossero in realtà attribuibili all'incisore milanese  Ambrogio Brambilla, un accademico noto col nome di compà Borgnin ( M.A.Katritzki, Italians Comedieans in Renaissance Prints, in " Print Collector"1987,4, pp.236-254 e si veda Ines Aliverti, Per una iconografia della Commedia dell'Arte, Teatro e Storia, 1989, I, pp. 77-83 ).  Per testimonianza del Lomazzo questo Brambilla era stato inventore e gran cancelliere dell'Accademia, aveva vissuto diversi anni a Roma, dove aveva avuto guai giudiziari e si era impegnato a Milano per la sua buona riuscita dell'Accademia. Un certo senso ironico e comico che si avverte in taluni dipinti di Caravaggio, come I Bari, per i quali si è fatto riferimento alla Commedia dell'Arte, potrebbero avere, in talune incisioni del Brambilla, qualche riferimento indiretto.

              Sappiamo che i pittori dell'Accademia non ebbero commissioni nell'ambito cittadino dopo i duri interventi di Carlo Borromeo. Nei Rabisch di Gian Paolo Lomazzo il Lamento della Pittura dedicato al pittore bolognese Camillo Procaccini ( in realtà parmigiano, anche se lavorò nella bottega del padre a Bologna per diverso tempo ) , chiaramente è un lamento per la carenza di lavoro per gli accademici ( Tamburini, 193, Lomazzo ed. Isella, pp. 130-131 ). L'arcivescovo Carlo Borromeo, dopo la peste, intesa come un castigo divino, si impegno a sviluppare forti censure e limitazioni, Limitò il carnevale e le rappresentazioni sacre e profane, si scagliò contro l'uso pittorico delle grottesche e delle trasgressioni manieristiche intendendo le figure ridicole e caricaturali che venivano a svilupparsi come manifestazioni del demoniaco, La rappresentazione fortemente erotica e sensuale dell'immaginario mitologico tardo manierista andava combattuto e fortemente censurato sino all'epurazione. La nuova arte non poteva non essere didattica e impregnata di una coerente religiosità devozionale. Il popolo non doveva essere distratto o sviato o lusingato, ma istruito a seguire, anche attraverso le immagini le vie della vera spiritualità che dopo il buio riformistico luterano trovasse una nuova luce. Gian Paolo Lomazzo di fronte alle imposizioni del Borromeo dovette muoversi su un doppio livello operativo: da una parte mostrare un'apparente adesione alle concezioni dettate dall'arcivescovo e dal Paleotti, dall'altro, in segreto, sviluppare un'adesione alla trasgressione burlesca e grottesca dell'accademia bacchica ( l'autoritratto del Lomazzo col suo sorriso furbesco, il cappello contadinesco a larghe tese coronato di alloro e pampini e la presenza del Tirso cuspidato avvolto di edera come simbolo fallico, sono segni nascosti del culto di Bacco-Dioniso ). Era l'unico modo per non dover rinunciare al lavoro e alla propria natura di uomo, artista e studioso. Erano dunque i Rabisch, le rime ridicole e burlesche e soprattutto l'attività di ricerca caricaturale e fisiognomica, che gli permisero di poter continuare, in una rappresentazione di nicchia, marginale, i suoi interessi profani. L'interesse per lo studio degli affetti, dei temperamenti, delle emozioni attraverso le deformazioni, le alterazioni, le espressioni dell'animo umano svolte in molti disegni e dipinti sono molto importanti per la formazione, diciamo così nascosta, del giovane Caravaggio. Guardiamo, ad esempio, un interessante olio di Lomazzo ( a lui attribuito ), Tre uomini ed una donna che tiene in braccio un gatto, battuto da Sotheby's ( 26 gennaio 2012 ) a New York, mostra il genere della pittura ridicola attraverso espressioni differenti di riso. Il Lomazzo parla di questo tipo di pittura ridicola in un passo del suo Trattato a proposito di un pittore quattrocentesco milanese, Michelino da Besozzo.




Gian Paolo Lomazzo, Tre uomini e una donna con  un gatto, provenienza Lise Haas, Wien ( Sotheby's, New York, ( Litt. Was einmal war: Handbuch der enteigneten Kunstsammlungen Wiens, Vienna 2003, p. 93, inv. no). 7

            Nel suo racconto di ciò che fece il pittore Gian Paolo Lomazzo ricorda che realizzò un dipinto con tre uomini e una donna che tiene in braccio un gatto che si lasciavano andare a grasse risate in modalità differenti, risate nate da un lascivo godimento ( nella'copia'del Lomazzo si vedrebbe solo la parte superiore, mentre quella inferiore originale sarebbe stata troppo oscena per riprodurla ) degli uomini e delle donne. Questo dipinto era diventato così famoso che veniva copiato ancora ai tempi del Lomazzo, magari in segreto, negli studi e nelle botteghe e mostrato nella sola parte superiore, come vediamo qui sopra. Questo riso sfrenato, complice e osceno era la cifra stilistica di non poche elaborazioni grafiche e poetiche dell'Accademia che aveva piacere nel mostrare le rozze espressioni compiaciute dei facchini e contadini valligiani che venivano nella grande città attirati dalla varietà di cose e persone che essa poteva offrire. E ci si chiede se il riso dell' Amore Vincitore di Caravaggio non nasconda anche questo aspetto del godimento ( anche erotico ) e del piacere smodato del riso ( presente anche nel S. Giovannino dei Musei Capitolini, del 1602 ) e ancora se il lieve rossore sulle guance non derivi dalla pratica dei comici dell'arte Gelosi che agivano presso l'Accademia con loro commedie in cui le attrici e gli attori, nella loro recitazione all'improvviso erano in grado di simulare l'arrossamento del viso per fingere l'imbarazzo dell'amato davanti all'amata e viceversa ( su questo aspetto dei comici all'improvviso Tamburini, pp. 175-76, ).  





Caravaggio, S. Giovannino, 1602, olio su tela, ( Dettaglio ) Musei Capitolini, Roma.




               Nella Milano riformata di Carlo Borromeo dunque esistevano queste nascoste trasgressioni che si servivano di linguaggi segreti, di codificazioni simboliche, per sfuggire alla censura. I compari si riunivano in luoghi spesso legati alla mescita del vino, nelle osterie di Milano, dove potevano scambiarsi poesie, rabisch, schizzi, caricature e dove potevano anche svolgersi burle e rappresentazioni all'improvviso e bevute a garganella grazie ad una specie di recipiente a forma di tubo che veniva riempito di vino sino al colmo e infilato  direttamente in bocca, detto in dialetto galigliobgn. Luoghi della marginalità in quartieri malfamati come S. Vito in Pasquirolo. Il Lomazzo rappresenta questi luoghi cogliendo la caricatura dei facchini blienesi scesi dal nord che si beano del cibo e del vino e mostrando attenzione agli aspetti fisiognomici di pellegrini ignoranti e crapuloni capitati in una specie di Bengodi ( se ne vedano le illustrazioni in Rabisch. Il grottesco nell'arte del Cinquecento, Milano, Skira, 1998 ). Il controllo del Borromeo si stava facendo ossessionante. Nelle Istructiones la libertà lasciata all'artista, che volesse lavorare in un cantiere posto in un luogo sacro o volesse ricevere commissioni di pitture sacre, che era poi il mezzo di guadagno più sicuro e la richiesta figurativa più comune, è vicina al grado zero, l'arte non può essere diversa, nemmeno minimamente da ciò che è stato concordato dai padri conciliari. Leggiamo al Cap. XVII Quae in imaginibus sacris cavenda, quae rursus servanda sunt." Non si raffigurerà in chiesa o altrove un'immagine sacra che contenga un falso dogma, oppure che offra agli ignoranti un'occasione di pericoloso errore, che sia contraria alle sacre scritture o alla tradizione della Chiesa...Inoltre, nel dipingere o scolpire sacre immagini, come non si dovrà rappresentare nulla di falso, di incerto o apocrifo, di superstizioso e di insolito, così si eviterà rigorosamente tutto ciò che sia profano, turpe o osceno, disonesto e procace; e analogamente tutto ciò che sia stravagante, che non stimoli gli uomini alla pietà, o che possa offendere l'animo e l'occhio dei fedeli. Inoltre, per quanto nella rappresentazione di un santo si debba ricercare, si avrà cura di non riprodurre a bella posta l'effigie di un alto uomo vivente o morto . Non dovranno trovar posto in chiesa o in altro luogo sacro immagini di bestia da soma, di cani, di pesci o di altri animali bruti, a meno che la rappresentazione della storia sacra, secondo la consuetudine della madre Chiesa non lo richieda specificamente" ( Carlo Borromeo, Istructionem Fabricae et Suppelletilis ecclesiasticae. Libri II, 1577, tr. it. di Zelia Grosselli, Università Cattolica, Milano, Cesano Maderno, 1983, pp. 216+232 l'originale latino è consultabile anche su www. memofonte.it/home/file/scritti_Borromeo.Pdf si veda anche Maurizio Vitta, La questione delle immagini nelle Istructiones di San Carlo Borromeo, ed Liberia Vaticana, Vaticano, 2000, pp. 397-404 ).

             Nel dipingere i santi, poi sarà necessario che il pittore provveda a fornire indicazioni simboliche che permettano di riconoscere la santità, come può essere l'aureola in forma di scudo rotondo, la mitra e il pastorale per indicare i vescovi, le palme fra le mani dei martiri, Occorrerà inoltre badare che l'aureola sia posto solo a personaggi canonizzati e che a Cristo spetti come attributo simbolico la croce. I "parergi" o ornamenti che vengono posti di regola dai pittori alle storie raffigurate devono essere rispettosi del luogo e della storia rappresentata, non si faranno quindi mascheroni, o uccelli o campi verdi o mare, insomma cose possano indurre al diletto. Insomma quei "falsi dogmi" ( dal neopaganesimo, all'ermetismo, alla magia naturale, alla cabala ) e quelle bizzarrie, delle quali gli accademici cultori di Bacco si deliziavano, erano cose del tutto estranee non solo alla pittura sacra, ma alla pittura in genere. E quegli stessi pittori che si rallegravano insieme in segreto in bettole ed osterie, se volevano lavorare erano costretti a fingere un allineamento con i principi della Controriforma. Abbiamo visto cosa accadde ad Aurelio Luini costretto all'inattività dopo un Breve del Borromeo e il Lomazzo dovette certamente adeguarsi nelle sue grandi decorazioni, come nella Cappella Foppa a S. Marco a Milano. Tuttavia venne in aiuto agli artisti dell'Accademia un secondo Borromeo, imparentato tanto con la famiglia di ecclesiastici quanto con i nobili Visconti, Pirro I Visconti Borromeo era membro dell'Accademia della Valle di Blelio e aveva come consulente culturale proprio Gian Paolo Lomazzo. Pirro difese e protesse gli accademici che parteciparono, in qualità di artisti alla realizzazione della sua villa e del Ninfeo di Lainate ( Alessandro Morandotti, Milano profana nell'età dei Borromeo, Electa, Milano, 2005 ) La residenza era affacciata su di un giardino " incantato ricco di acque e di vegetazione, dove tutto era predisposto per suscitare la meraviglia degli ospiti" ( Morandotti, p. 28 ). Il Ninfeo doveva contenere oggetti artistici, dipinti e statue, che avevano la funzione di suggestionare il visitatore, in particolare di affascinarlo con la varietà dei giochi d'acqua che potevano essere arricchiti di notte dalle luci delle fiaccole. La decorazione della villa e del Ninfeo appartiene ad accademici come Carlo Antonio e Giulio Cesare Procaccini o a Camillo Boccaccini, per la prima, all'estro di Martino Bassi, il secondo. Ricca la varietà sul soffitto del piano nobile della Villa delle grottesche e di soggetti profani, zoomorfi, mostruosi, mitologici con cornici in stucco e mascheroni. Si può dire che qui era possibile l'esatto contrario di ciò che Carlo Borromeo predicava: lo spazio profano di contro all'altro spazio, estraneo e oppositivo, che è quello sacro. Nel Ninfeo invece Martino aveva realizzato una imitazione delle meraviglie della natura con conchiglie e rocce gocciolanti, grotte e grottini, stalattiti e stalagmiti, mosaici, composizioni di pietre dure colorate ed altro. Insomma, ciò che i Lomazzo ed i suoi compari non riuscivano ad esprimere nei luoghi posti sotto l'autorità ecclesiastica, potevano in qualche modo esprimere in questo posto ameno dove, nel teatro di verzura e nel portico si saranno anche fatte riunioni e rappresentazioni o concerti musicali. Che Caravaggio potesse frequentare anche questo posto, così ricco di immaginario profano, è possibile stante la conoscenza e l'apprezzamento che il Lomazzo mostrava per il Peterzano, allineato e certo estraneo a questa Milano profana, che si guardava bene dal frequentarla, ma che forse non poteva impedire di farlo al suo inquieto allievo.

                 La documentazione non ha fornito ancora alcuna indicazione sicura su lavori milanesi del Caravaggio, si può pensare o che lavorasse solo in collaborazione durante l'apprendistato come aiuto del suo maestro con altri lavoranti-allievi o che lavorasse da solo e di nascosto dopo l'uscita dalla bottega del Peterzano o che non lavorasse proprio. Che pensasse, cioè, a bighellonare, che facesse quelle stranezze o "stravaganze" di cui parla il Mancini, che a mio avviso potrebbe anche essere un'indicazione di quella partecipazione segreta alle "stravaganze" degli accademici vignaioli adoratori di Bacco.

                  I luoghi della città erano oggetto dell'attenzione di Carlo Boromeo che vedeva nella piazza uno spazio di pericolosità e che quindi andava raccolta e dimensionata in senso prettamente cristiano. Nelle Istruzioni aveva raccomandato all'architetto dello spazio sacro sobrietà e semplicità, allontanando dal frequentatore della chiesa ogni possibile tentazione a sviare lo sguardo e il cuore da quelli che erano gli obblighi del cristiano: la preghiera, la sottomissione, il pentimento, l'unità con gli altri fedeli. La navata unica, l'allontanamento, dalle cappelle private di qualsiasi richiamo alla classicità profana nell'uso degli ordini canonici, salvo in qualche caso ove fossero necessari, il distacco della fonte battesimale dalla chiesa ( Lutero aveva sostituito l'altare con il fonte battesimale per sottolineare come il battesimo fosse l'unico atto di fede ), da costruire all'esterno come nelle costruzioni paleocristiane ( come a Firenze o a Roma ), la separazione netta fra navata e presbiterio con la costruzione di balaustre e cancellate, la realizzazione di confessionali-cabine necessari a celare il confessore, spingere alla riflessione e al pentimento e soprattutto ad evitare ogni tentazione ( le grate fra confessore e fedele erano forate con forature millimetriche ). Nelle strade e nelle piazze non potevano esserci i segni del sacro perché si sarebbero contaminati con quelli del profano: il sacro doveva stare solo nella chiesa, separato e protetto. Allo stesso modo, condannando e proibendo ogni forma di deviazione dall'ordine che deve seguire ogni buon fedele e quindi giochi, feste, carnevalate, buffonerie, concerti, giostre nei giorni dedicati al Signore e nelle feste comandate ( Giovan Battista Castiglioni, Sentimenti di San Carlo sugli spettacoli, Bergamo, 1759, p. 54, lettera di Carlo Borromeo del 22 febbraio 1579 e Editto di prohibitione di giostre e spettacoli nelle domeniche e feste del 7.3. 1579, Tiziana Mazzaglia, Saggio su Carlo Borromeo fra arte e teatro, 3 ottobre 2015, in www. lecanoedelweb.it/Carloborromeo-teatrante-e-artista/ ) aveva trovato modo di sfidare il pur seguito spettacolo profano contrastandolo con altre forme di spettacolo, come le grandi processioni, le recite collettive del rosario, le vie crucis. In questo modo la piazza e le strade erano direttamente investite dalle celebrazioni della liturgia e venivano così'purificate'. In questo passo leggiamo la lamentela del Borromeo per l'occupazione profana dello spazio intorno alla chiesa, ma allo stesso tempo della ricca varietà di spettacoli e divertimenti, dell'affollamento e di quella che l'arcivescovo valutava con indecorosa mancanza di rispetto: " Strepitavano quasi sulle porte della Chiesa, et intorno,tamburi,trombe,carrozze di concorso,gridi e tumulti di tornei, corriere,giostre,mascherate et altri simili spettacoli profani con pubblico e scandalosissimo disturbo. Oltre che disturbi et impedimenti così fatti, erano spesse volte nella piazza esterna della Chiesa, e le strade per dove passavano le processioni, e per dove anco noi andavamo alla Chiesa, di maniera che alle volte fummo in un certo senso impediti"( Editto 7/3/1579, Acta Ecclesia Medionalensis, coll. 1113-1116 ). L'architetto ufficiale di Carlo Borromeo, Pellegrino Tibaldi, non solo si occupa della disposizione dello spazio sacro secondo le istruzioni del cardinale, ma sotto sua indicazione interviene per una generale ristrutturazione dell'intero spazio urbano in senso cristiano con l'edificazione di numerose chiese e disposizione di strade in funzione religiosa e processionale ( Giorgio Simoncini, L'idea della città cristiana negli scritti di Pellegrino Tibaldi, in Arte Lombarda, 1990, 95-95,pp. 55-65 e A. Scotti, Architettura e spazi urbani nell'opera di Pellegrino Tibaldi, in idem, pp. 65-75 ). Nonostante questi provvedimenti la festa non è mai stata realmente soppressa e vi erano momenti festivi che non potevano essere evitati come i tornei organizzati per importanti visite di Stato e lo stesso carnevale, per quanto fortemente limitato, non poteva essere del tutto soppresso. Vi erano poi i molto frequentati Cameroni delle commedie ( uno si trovava in via Rastelli in casa dell'Ebreo Angelo Lucchese, altri erano a Porta Tosa e in Casa Arese ), visti da Borromeo come il fumo negli occhi, perché luoghi di corruzione e di vizio. Borromeo aveva pensato di contrastare il teatro profano con quello sacro, dando spazio alle rappresentazioni religiose, alla drammatizzazione della Settimana Santa in particolare ( La scena della gloria. Drammaturgia e spettacolo a Milano in età spagnola a c. di Annamaria Cascetta e Roberta Carpani, Milano, Vita e Pensiero, 1995 e AA.VV., S. Carlo e il suo tempo, Atti, maggio 1984, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1980 ). L'attraversamento lungo il tracciato di una ideale via sacra aveva la funzione di canalizzare sguardi ed attenzione dei fedeli, di farli attivamente partecipare, in senso quasi fisico, alla Passione di Cristo e in questo senso il Borromeo aveva ben appreso l'arte del teatro e la sua formidabile capacità comunicativa e la funzionalità scenografica degli spazi urbani. Al Borromeo interessava il controllo e la vigilanza sui fedeli, per questo non bastava allertare la polizia del Tribunale dell'Inquisizione per la denuncia di sospetti di eresia e stregoneria, ma era necessario di servirsi di un capillare controllo nelle parrocchie operato dai parroci ; lo stesso confessore che operava nel rinnovato confessionale doveva non limitarsi ad ascoltare i peccati e comminare le preghiere riparatrici, ma essere severo giudice in grado di rinviare il peccatore ad un suo superiore che poteva comminare pene più severe e soprattutto pubbliche che era un grave atto di esposizione della coscienza e dell'intimità di un peccatore  ( Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza, Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi,1996, pp. 282-371 ). E' chiaro che nella sua rigidità Carlo Borromeo non fosse propriamente ben accetto dalla popolazione, magari rispettato e temuto, ma non proprio amato, anche a causa del carattere chiuso, un po'misogino, rigido e uno aspetto non proprio gradevole, con il grande naso e la fronte stretta come lo mostrano vari ritratti come quello di Orazio Borgianni del 1610-12c basato su raffigurazioni più antiche.


Orazio Borgianni, San Carlo Borromeo, particolare, 1610, Museo dell' Hermitage, San Pietroburgo
             Da giovane Carlo non si era fatto catturare dalla vita mondana di Roma dove lo aveva chiamato lo zio, Giovanni Angelo Medici di Marigliano, poi papa col nome di Pio IV, anzi la disdegnava malgrado ricevesse di continuo inviti dagli ecclesiastici più importanti e ricchi della città eterna. In realtà si sentiva attratto da una vita rigorosa e ascetica, era nemico del bello e del corpo e nutriva sentimenti di avversione nei riguardi delle donne, non sopportava inviti e festini dove riteneva che i cardinali si lasciassero corrompere da donne disoneste. Preferiva una vita ritirata, con una tavola per letto, frequenti digiuni, intense letture e preghiere e notturne mortificazioni della carne con i flagelli che teneva in casa. Dopo un po' non venne chiamato più alle feste e considerato un mezzo pazzo che si era fatto incantare dai Teatini, un ordine monastico nato in seno al Concilio di Trento che si proponeva un rinnovamento morale e spirituale della Chiesa. In collaborazione con il papa decise di emanare un decreto nel 1560 in cui si imponeva ai vescovi di risiedere nella Diocesi e quindi gli si imponeva di rinunciare a viaggi, feste e divertimenti, causando, in questo modo molti malumori e risentimenti. Diventato vescovo di Milano e lasciata la Roma corrotta, Carlo pensò che a Milano doveva cambiare molte cose per ridare dignità al clero e alla Chiesa. Intervenne perciò decisamente con rigidi controlli e visite pastorali anche personali, limitando i divertimenti, la prostituzione, il gioco, le insubordinazioni degli ecclesiastici, l'arroganza dei nobili e della soldataglia spagnoli. A Milano la città era mal governata da un potere miope, distratto e impopolare. Inevitabile fu lo scontro con le autorità civili e politiche. Più benevolo fu il rapporto col popolo che aveva visto in lui un rinnovatore, un uomo di ferro, capace di tenere a bada le odiate autorità spagnole. Più duro fu però lo scontro dentro la Chiesa milanese, con gli ordini monastici, come con i canonici della Scala che si erano macchiati di delitti comuni e soprattutto con gli Umiliati che non avevano sopportato il personale controllo esercitato da Carlo a Santa Maria di Brera e si erano ribellati addirittura facendosi seguire da una scorta armata. La situazione precipitò: gli Umiliati assoldarono un killer, un certo Farina, un monaco ladro e alcolizzato, al quale diedero l'incarico di uccidere Carlo. Il Farina lo sorprese il chiesa mentre pregava. Gli sparò alla schiena un colpo di archibugio che lo colpì solo di striscio o giunse depotenziato o venne sparato male di fretta e senza mira. Si gridò al miracolo perché Carlo rimase illeso. Il Farina venne catturato, gli mozzarono la mano che aveva sparato e venne impiccato sulla pubblica piazza. Gli Umiliati vennero immediatamente sciolti dal papa. Dopo la peste che egli aveva visto come il flagello mandato da dio per punire i molti peccati della città corrotta e che egli aveva esorcizzato con grandi processioni e aiuto ai malati rischiando di persona il contagio, la svolta durissima e la trasformazione della città con la costruzione della chiesa circolare di S. Sebastiano e fece concludere al Tibaldi i lavori per S. Fedele che divenne l'edificio gesuitico da contrapporre al Gesù a Roma. Nel 1583 durante un viaggio di esplorazione pastorale nelle valli svizzere ai confini con l'Italia, fece perseguire eretici luterani e ben 161 streghe di cui 11 irriducibili che, rifiutatisi di abiurare vennero bruciate vive. Dopo aver visitato la Sacra Sindone a Torino ed essersi ritirato nel Sacro Monte di Varallo e aver tentato di recarsi ad Ascona dove si stava creando un pericoloso baluardo protestante, morì a 46 anni e venne sepolto, come aveva chiesto sotto il pavimento del Duomo: al funerale c'erano solo tre vescovi ma un'enorme popolo. Nel 1610 la Chiesa lo proclamò ufficialmente santo ( www. viaggiatoricheignorano.blogstop.it/ Carlo Borromeo/ il santo di ferro/21 settembre 2015. Sul Borromeo si veda per un equilibrato giudizio critico P. Biscottini Borri, Carlo e Federico. La luce dei Borromeo nella Milano spagnola, Milano, 2005. ).

              E' chiaro che in una situazione così asfittica per un ribelle come Caravaggio la vita dovesse essere alquanto difficile; egli forse trovava sfogo proprio con quei compagni stravaganti che parlavano un misto di dialetti lombardi e si ubriacavano nelle bettole intorno ai cantieri del Duomo zeppe di artigiani, di stranieri, popolati di prostitute, tagliaborse, ladri. Naturalmente non vi sono documentazioni di sorta e i biografi conoscevano pochissimo il periodo milanese di Michelangelo, tuttavia è possibile che il pittore seguisse questo itinerario alternativo. Le risse in questi luoghi dovevano essere all'ordine del giorno e della notte, complice anche il vino e il codice cavalleresco che prevedeva rispetti e precedenze spesso mancati dall'insolenza dei bravi spagnoli e dalle stesse teste calde di artigiani ed artisti. Soprattutto in città c'erano troppi vagabondi, persone senza mestiere, che si appoggiano a qualche gentiluomo in grado di proteggerli, che giravano armati sebbene fosse proibito, che frequentavano prostitute, bische e osterie. Malgrado per questa criminalità comune fosse riservata la galera, cioè la voga forzata sulle galee di Stato, le violenze non c'era modo di farle cessare: " ne la città ancora si commettono giorno e notte moltissimi robbamenti, violenze, assassini,homicidi et altri gravissimi delitti" ( Romano Canosa, Storia di Milano nell'età di Filippo II, Roma, Sapere, 1996, p. 170  )  Che anche Caravaggio finisse nella rete è possibile. Fatto sta che il Mancini accenna chiaramente ad un episodio violento che certamente conosceva ma che rimase misterioso e non chiarito nelle inquietanti note manoscritte aggiunte ad una copia della Vita di Caravaggio conservata alla Biblioteca Marciana di Venezia: " Fecer delitto. Puttana scherro e gentilhuomo. Scherro ferì il gentiluomo et la puttana sfregiata. Sbirri ammazzati. Volevano sapere che i compagni...Fu prigion un anno  e lo volse veder vendere il suo. In prigion confessa vien a Roma né volse..." ( Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura, a c. di Adriana Marucchi, vol I, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1956, p.223 )

              Nei dizionari etimologici spagnoli il termine sgherro (  in origine indicava un capitano, e, propriamente, capo della schiera, dall'alto tedesco skerre;  per passare poi ad indicare una guardia armata e privata di un nobile; forse il significato proviene anche dal latino sicarius ) gerro, significava la guardia armata di un gentiluomo, chiamata anche esbirro  ). Vi fu un delitto per causa di donne fra uno scherro o esbirro o bravo ( è un sinonimo di sgherro, dal latino pravus, malvagio, guardaspalle di gentiluomini di pessima reputazione, poco più che malviventi comuni, soldataglia e vagabondi, di cui parlano le "grida", come quella celebre del 1583, trascritta da Manzoni nei Promessi Sposi  ) e un gentiluomo. Lo scherro ferì il gentiluomo e sfregiò la puttana. Intervennero gli sbirri e alcuni ne rimasero coinvolti finendo ammazzati. Gli sbirri vollero sapere chi fossero i compagni degli arrestati, ma forse Caravaggio, al quale vennero poste precise domande dopo il fermo di polizia, fu reticente o affermò il falso. Questo provocò il suo arresto e la prigione per un anno. Non si tratterebbe quindi di un delitto da parte di Caravaggio intervenuto sguainando la spada per aiutare un amico, ma di una testimonianza reticente, che era stata punita con un anno di carcere. Dalle ricerche effettuate negli archivi criminali milanesi dal Berra (, 2005, cap. XI, p. 234 ) , non si evince che Caravaggio fosse mai stato coinvolto in qualche rissa ( però vi sono varie carenze d'archivio ad annum ) ed anche la possibile falsa testimonianza ipotizzata da Calvesi ( La realtà, 1990, pp. 117-18 ) , non risulta dai registri criminali e in ogni caso era considerata reato grave punibile con la morte. Quindi, un solo anno di prigione come si spiega? Nel 1591 il pittore aveva vent'anni e per la legge era ancora minorenne, pertanto il giudice poteva avere una certa discrezionalità nel giudizio. Vi è un'altra direzione che va seguita. Un manoscritto ottocentesco conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano ( Maurizio Calvesi, Caravaggio i documenti e dell'altro, pp. 19-20 in www.assonet.it, Caravaggio ( da ) Michelangelo. Cronaca artistica a lui relativa, segn. III st DXV,54. ) riporta: " A diciotto anni uccide un compagno con un coltello, ma riacquista la libertà per intervento di Ambrogio Figino...bandito da Milano si ritira a Como, per poi tornare a Milano" . In seguito, riprendendo il Bellori, l'estensore della Cronaca precisa che il pittore raggiunse Venezia dove poté ammirare le opere di Giorgione ( Calvesi, p. 20 ). Dopo quattro o cinque anni raggiunge Roma. L'anonimo autore, dunque, sapeva qualcosa in più che ora la scoperta di un manoscritto di Gaspare Celio, pittore coetaneo di Caravaggio ( 1571-1640 ), autore di una sconosciuta Vita di Caravaggio del 1614 fatta di recente conoscere dal dottor Riccardo Gandolfi che ne sta curando l'edizione critica presso Leo S. Olschki di Firenze, conferma, si dice infatti che Caravaggio uccise a Milano un compagno, forse per errore ( Carole Blumenfield, Caravage aurait commis deux homicides,  in Le Journal des Arts, 476, 31/3, 2017, p.6. In precedenza però ne aveva parlato Fabio Isman in una intervista a Il Messaggero allo stesso Gandiolfi, il 5. Marzo 2017 ) Da queste documentazioni se ne deduce che il pittore fu responsabile di un delitto a diciotto anni ( quindi nel 1589 ), quando a seguito di una rissa uccise con una coltellata un compagno e venne, probabilmente, imprigionato. Ora, a seguito dell'intervento di Ambrogio Figino ottenne la ,libertà ma venne bandito da Milano. Questo pittore decoratore, figlio di una importante famiglia di armaioli, lodato dal Tasso e dal Marino, gran disegnatore e ritrattista,  ( R, P. Ciardi, Giovan Ambrogio Figino, Milano, 1968 e dello stesso la voce nel DBI, vol 47, 1997 ), potrebbe essere stato conosciuto da Caravaggio nell'entourage del Lomazzo e in ogni caso era in rapporti con il Peterzano col quale gareggiò nel Concorso per la decorazioni delle Ante dell'Organo del Duomo. Caravaggio aveva certo visto la sua Madonna con Bambino che calpesta un serpente, nell'Oratorio dell'Immacolata presso la chiesa di S. Antonio Abate a Milano, databile al 1583, della quale aveva notato il particolare del piede del bambino sovrapposto a quello della Vergine poi ripreso nella Madonna dei Palafrenieri . Ma aveva anche avuto modo di vedere il bellissimo S. Matteo e l'Angelo in s. Fedele a Milano, che ebbe certamente importanza nell'iconografia del primo S. Matteo e l'Angelo della Cappella Contarelli.

Ambrogio Figino, San Matteo e l'Angelo, 1587, seconda cappella a destra della chiesa di S. Fedele a Milano. Commons image, Giovanni dall'Orto, 14/02/2008

Giovan Ambrogio Figino, Madonna con Bambino che calpesta un serpente, Oratorio dell'Immacolata di S. Antonio Abate. Fotografia dell'Istituto per il Catalogo e la Documentazione della Fondazione Federico Zeri di Bologna



                 Alla fine degli anni'80 il Figino era all'apice della fama a seguito della vincita del Concorso per le ante dell'organo del Duomo in cui prevalse anche sul Luini e il Procaccini. Doveva essere ben inserito nell'alta società milanese e partecipava all'Accademia della Valle di Blelio. E' possibile che dopo aver lasciato Peterzano nel 1588 Caravaggio si accostasse al Figino, ne divenisse collaboratore e grazie a lui, forse, familiarizzò e si esercitò nelle armi. Dunque, se l'autore della Cronaca è nel giusto, grazie a potenti conoscenze del Figino ( poco amato dai Borromeo ma, sembra, ricercato e protetto dalla nobiltà spagnola a Milano ), Caravaggio, arrestato, venne fatto liberare e bandito dalla città. Quanto poté accadere questo? Non quando il pittore è impegnato nella vendita di terreni e in spartizioni di eredità, cioè fra il 20 giugno 1590 e il 20 maggio 1592, quando se avesse avuto problemi con la giustizia non avrebbe potuto fare alcun atto notarile. Dunque dopo. Se, come sembra dall' interrogatorio del barbiere Giovan Paolo di cui si è detto, il pittore è documentato a Roma non prima del 1596 e se Bellori parla di un arrivo dopo quattro e cinque anni di permanenza al nord ecco che con le date ci potremmo essere. Dopo aver riparato, sembra a Como e un ritorno in clandestinità a Milano, Caravaggio per incorrere nei rigori della giustizia che lo aveva bandito, dovette lasciare la Lombardia ed entrare in territorio veneto dove poteva godere della extraterritorialità e puntare verso Venezia che era la città dove aveva operato Tiziano, maestro di Peterzano. Oggi un viaggio di Caravaggio a Venezia, fosse per motivi di studio o per problemi giudiziari a Milano, non è più messo in discussione dagli studiosi, salvo la negazione di Ferdinando Bologna. La mostra de Gli occhi di Caravaggio. Gli anni della formazione fra Venezia e Milano, del 2011, Museo Diocesiano di Milano, Catalogo Silvana editoriale,  curata da Vittorio Sgarbi, tenta l'illustrazione di un percorso di formazione del Merisi fra pittori veneziani e lombardi. A porre l'accento sul vezianismo, il giorgionismo in particolare, di Caravaggio fu, per testimonianza di Giovanni Baglione, l'accademico Federico Zuccari che di fronte al " rumore" fatto dall'esposizione pubblica della Vocazione di San Matteo a San Luoigi de' Francesi, ebbe a dire: " Che rumore è questo?-e guardando il tutto diligentemente, soggiunse-io non ci vedo che il pensiero di Giorgione nella tavola del Santo quando Christo il chiamò all'apostolato e sogghignando, e meravigliandosi di tanto rumore, voltò le spalle, e andossene con Dio." ( Giovanni Baglione, Vita di Caravaggio in Le Vite, Roma, 1642, p. 137 ). Ora, nel catalogo di Giorgione non risulta una Vocazione di San Matteo; Lionello Venturi pensava che il richiamo al Santo ( S. Antonio a Padova ), si riferisse ad opere giovanili di Tiziano quando ancora egli si confondeva con la pittura di Giorgione: è il caso del Miracolo del Neonato che parla che presenta una composizione simile alla Vocazione , con le immagini disposte parallele al piano di fondo con una flessione centrale e soprattutto la divisione del fondo fra la parte in ombra a destra e la parte in luce a sinistra. Bellori, con riferimento al supposto viaggio a Venezia, riprende la questione del"giorgionismo"di Caravaggio riferendolo alle prime opere come I Bari e scrivendo: " Per alcune discordie, fuggitosene da Milano, giunse in Venetia, ove si compiacque tanto del colorito di Giorgione, che se lo propose per iscorta nell'imitatione. Per questo veggonsi l'opere sue prime dolci, schiette, e senza quelle ombre, ch'egli usò poi; e come tutti i pittori venetiani eccellenti nel colorito,fù Giorgione il più puro et il più semplice nel rappresentare con poche tinte, nel modo stesso portossi Michele, quando prima si fissò intento a riguardare la natura" ( Giovan Pietro Bellori, Vita di Caravaggio, in Le Vite, Roma 1672, ed !976, cit, p.202. Si tratta, dunque di colorismo e naturalismo che caratterizzano tanto l'uno che l'altro pittore; ma soprattutto Zuccari avrà avuto modo di rilevare l'uso della luce, che doveva essere la novità più evidente nell'opera e che Vasari aveva rivelato nell'uso"terribile"di quella nell'oscurità ( Vasari-Milanesi, Le Vite, 1568, cit., Vita di Giorgione da Castelfranco, IV, pp. 91-93 ). Ma Giorgione è avvertito da Caravaggio anche per il carattere amoroso e musicale di alcuni suoi dipinti che visti direttamente o indirettamente mediante stampe, forniscono uno degli aspetti del primo periodo romano del Merisi che dovette certo avere un qualche precedente di formazione fra Venezia e Milano e si pensi a due dipinti della Galleria Borghese, Il suonatore di flauto e il Cantore appassionato.

Giorgione (attr. a ) Il cantore appassionato, 1510, Roma, Galleria Borghese

Se mai si recò a Venezia il Caravaggio non poté non vedere opere importanti che poi ritorneranno nella sua opera pittorica. Parliamo, ad esempio, del Riposo nella Fuga in Egitto di Jacopo da Ponte detto il Bassano, del quale impressionano la testa dell' asino in primo piano, il vecchio san Giuseppe ed il paesaggio nuvoloso di fondo, grigio-azzurro, la quercia a destra, aspetti che in altra forma compositiva ritorneranno nel Riposo della Galleria Doria Pamphili a Roma. Questa opera si trovava a Venezia dove, nel 1612 venne acquistata dal parroco del Duomo di Milano e donata a Federigo Borromeo che la accluse alla collezione che stava predisponendo nella Pinacoteca Ambrosiana ( Su Jacopo Bassano, la voce di William R. Rearick, nel DBI, vol 32, 1986 e Rodolfo Pallucchini, Bassano, Bologna, 1982. sull'opera: Il riposo nella fuga in Egitto. Ritorno e rinascita, mostra di Venezia, Fondazione Querini Stampalia, Venezia, maggio-luglio, 2008,).

Jacopo Bassano, Riposo nella fuga in Egitto, c. 1545, olio su tela, 118x158, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

La grande ricchezza dei dati naturalistici, l'affollamento degli animali ( e si pensi a tal proposito allo stupefacente Orfeo ) e la concentrazione di piante che avevano disturbato il purista Vasari quando si recò a Venezia per aggiornare la seconda edizione della Vite ( Vita di Jacopo Bassano, nella Vita di Tiziano, Firenze, Sansoni, 1881, VII, p. 455 ), doveva certo aver colpito il Caravaggio che del Bassano avrà anche ammirato il sapiente uso della luce ed i contrasti chiaroscurali, la grande umanità e l'aspetto semplice, paesano, delle figure ( guardiamo questo S. Giuseppe che sembra un pastore stanco ). Naturalmente anche Tiziano. Piuttosto che l'Assunta e il Fondaco dei Tedeschi , opere famose di cui gli aveva parlato il Peterzano e di cui aveva visto certo stampe e copie, ci si può soffermare su una tela un tempo notissima e molto stimata, Martirio di San Pietro da Verona, un tempo nella chiesa dei Santi e Paolo, andata poi perduta in un incendio del 1867 e sostituita da una copia di Johann Carl Loth del 1691 ( Pietro Aretino, che l'aveva ammirata con Niccolò Tribolo e Benvenuto Cellini in visita a Venezia, in una lettera al Tribolo aveva detto che era la più bella pittura allora esistente in Italia e Giorgio Vasari lo aveva lodato dicendo che l'opera era "la più compiuta, la più celebrata, e la maggiore e meglio intesa e condotta che altra..."cfr, Stefano Zuffi, Tiziano, Milano, Mondadori, p. 143; Giorgio Vasari, Vita di Tiziano, in Le Vite, ed, 1568, in Vasari-Milanesi vol.VII,, Firenze, Sansoni, 1881, p 439 ). Giorgio Vasari aveva visto la grande pala nel 1566, durante il secondo viaggio a Venezia, poco prima della Seconda edizione delle Vite ed era rimasto ammirato del boscoso fitto paesaggio illuminato da uno squarcio di cielo nuvoloso e azzurrino ed era rimasto colpito dal santo martire " cascato in terra ed assalito dalla fierezza d'un soldato, che l'ha in modo ferito sulla testa, che, essendo semivivo, se gli vede nel viso l'orrore della morte", Vasari, cit., p.438. Caravaggio, forse si ricordò della posizione del Santo in terra con il braccio alzato in alto ed un altro piegato in basso, parallelo al piano di terra, con accanto il killer che lo ha colpito, nel Martirio di San Matteo della Contarelli a San Luigi dei Francesi a Roma ( la posizione delle braccia nei due Santi crollati in terra che gettano lo sguardo terrorizzato ai due soldati omicidi semi vestiti sono aspetti molti significativi ).

Johann Carl Loth, Martirio di S. Pietro da Verona, copia del 1691 da Tiziano, 1528-1530, tela distrutta nell'incendio del 1857, Chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, Venezia 
                
Caravaggio, Martirio di San Matteo, olio su tela, c. 1600, Cappella Contarelli, Chiesa di S. Luigi de'Francesi, Roma


Difficile sapere se Caravaggio fu mai a Venezia, qui si sono avanzate delle ipotesi sulla base di una indicazione manoscritta. La possibilità che esca fuori un documento che fornisca indicazioni più precise c'è sempre, naturalmente anche un documento che documenti che non vi fu mai fuga né viaggio di studio, ma ci piace credere che il grande pittore lombardo anche nella città lagunare poté trovare quegli spunti figurativi necessari a rendere concreta la sua avventurosa scalata ai vertici dell'arte pittorica.