venerdì 18 dicembre 2015

L'amante di pezza


                                   L' AMANTE DI PEZZA

                                           La bambola amante e modella di Oskar Kokoschka


Fotografia della bambola di Oskar Kochoschka


Nel racconto " notturno " di Hernest Theodor Hoffmann, " L'uomo nella sabbia", pubblicato nel 1815, lo scrittore racconta la triste vicenda di Nathanael, che sconvolto da bambino dai racconti su di un mostro, l'uomo di sabbia che si intrufola di notte nel letto dei bambini e dalla visione notturna di un uomo corpulento e sgradevole amico del padre, resta perseguitato per l'intera esistenza dalla presenza inquietante di esseri fantastici e mostruosi che possono sconvolgere la normale vita di un uomo. Quando ad un concerto, vedendo una bravissima pianista suonare al pianoforte si innamora perdutamente di lei e poi, sconcertato, scopre che non si tratta altro che di un essere meccanico dalle orbite vuote, il protagonista vede riaffiorare in sé gli incubi giovanili e la presenza della donna amata come automa lo porta a scambiare di continuo la realtà con la fantasia: prima crede che una sua amica si sia trasformata in automa e tenta di ucciderla, poi, alla fine, per liberarsi da ogni incubo, si uccide lui stesso ( In L'uomo nella sabbia e altri racconti, Mondadori, Milano, 1985 ). Dal racconto romantico che si inserisce nella tradizione degli automi settecenteschi che grande successo avevano avuto nei salotti bene parigini, venne tratto, nel 1870,  un famoso balletto, Coppelia, che ebbe grande successo, grazie alla riduzione librettistica di Charles Nuitter e Arthur Saint-Leon e alla suggestiva musica di Léo Delibes. Non è dato sapere se il pittore espressionista Oskar Kochoschka, lettore onnivoro e drammaturgo, avesse letto questo racconto di Hoffmann quando decise di far realizzare una bambola con le fattezze della donna che aveva tanto amato e che lo aveva lasciato, Alma Schindler Mahler, la ragazza più bella di tutta Vienna; in ogni caso, nella sua mente sconvolta c'erano certo suggestioni romantiche che si erano mescolate al piacere per il feticcio, per l'oggetto come sostituto del piacere sessuale ( la parafilia ) , turbe psichica di cui, evidentemente, il pittore soffriva. La storia di questo amore per una donna vera finito male, che si trasforma in un amore per una donna-oggetto, finito peggio, è stata ben raccontata da Andrea Camilleri, nel romanzo La creatura del desiderio ( Milano, Skira, 2013 ). Da una parte abbiamo la bella avventuriera Alma Mahler, vedova del grande compositore che aveva ben 30 anni più di lei e che Alma aveva sposato come primo marito ( ne avrà tre, oltre ad una infinità di amanti e di relazioni con uomini quasi sempre importanti e di considerevole prestigio ), dall'altra il timido Oskar, che aveva fatto di Alma un'ideale superiore di femminilità e una donna da amare senza se e senza ma, interamente ed ossessivamente. C'erano state centinaia di lettere, di richieste di spiegazioni, di appostamenti, di controlli epistolari: Oskar era gelosissimo e completamente perduto dietro ad Alma che divenne anche il soggetto di alcuni suoi quadri: ne abbiamo due, in entrambi dei quali il pittore appare insieme all'amata; il più famoso è La sposa nel vento  , il cui titolo gli venne suggerito seduta stante, di fronte al quadro appena dipinto, dall'amico poeta espressionista Georg Trakl.

                          Oskar Kochoschka, La sposa nel vento, 1914, Kunstmuseum, Basilea

Nell'opera, i due amanti sdraiati nudi sul letto sono avvolti da una passione sconvolgente, evidenziata da una tempesta da uno scatenarsi di ondate devastanti che li attraversano. Fra i due Alma a destra resta imperturbabile, immobile, accanto al pittore in un sonno profondo, che la tiene lontana dalle passioni del mondo. Oskar, a sinistra, invece, veglia, è tormentato dai suoi incubi. Intorno al suo corpo sembra quasi essersi scavata una voragine nera dentro una conchiglia che racchiude la coppia quasi a proteggere, ma invano, un amore troppo esposto, troppo soggetto alla violenza dell'inevitabile, del destino avverso. In un altro dipinto, la coppia è non sdraiata, ma in piedi, entrambi sono nudi e abbracciati. Ne esistono due versioni, entrambe del 1913 ( quindi precedenti la grande opera La sposa nel vento, che è del'14 )  una è al Museum of Fine Art di Boston, l'altra è conservata al Leopold Museum di Vienna.

Oskar Kochoschka, Gli amanti ( o I nudi ), 1913, Leopold Museum, Wien

L'anno prima, nel 1912,  era iniziata la travolgente storia d'amore fra Oskar ed Alma. Qui ( si veda in basso la frequente scritta OK con la quale l'artista firmava i suoi quadri ), abbiamo un'anticipazione della Sposa nel vento : i due amanti, nudi, sembrano quasi effettuare un passo di danza, in uno spazio che è già sconvolto da onde, segmenti scoscesi, guizzi, fiamme, un inferno di verdi, di blu, di celesti, di bianchi che arrivano da tutte le parti, dati quasi con furore, alla prima. Vediamo come Alma sembra essere protettiva, con una mano accarezza la testa di Oskar, mentre il pittore, che l'abbraccia sembra essere trascinato e quasi sorretto da lei. Guardiamo i due volti: quello di Oskar è inquieto, tormentato, sfuggente, rivela benissimo uno stato d'animo già tormentato, angosciato da una possibile perdita; quello di Alma è sicuro di sé, tranquillo, gessato, fisso con uno sguardo che evita l'amante e guarda oltre. Oskar è gelosissimo, non solo degli amori passati, ma di persone ancora in vita, fra cui quello, sia pure breve, per Gustav Klimt, che la ritrasse nel suo atélier sempre frequentato da giovani ragazze, spesso nude e disponibili, ma anche di persone che non ci sono più: geloso di Mahler, al punto da nascondere le lettere che il grande compositore aveva scritto alla moglie, da occultarne fotografie, spartiti musicali o altri ricordi. Fin dall'inizio l'amore fra i due era diventato un tormento per l'irrequieta Alma che riuscì, comunque a sopravvivere per tre anni. Il pittore cercò di trattenerla in tutti modi, ma lei, spirito libero e ribelle per eccellenza, non accettò né imposizioni, né situazioni che avrebbero potuto bloccarla, come la nascita di un figlio. Quello che aveva avuto con Oskar non nacque perché Alma decise di abortire gettando ancor più nello sconforto Oskar che non dormiva più, si tormentava in continuazione, perdeva peso. Alma, a dispetto dell'amante, che non voleva, continuava a frequentare i salotti del bel mondo viennese, dove passavano fior di intellettuali e in uno di questi conobbe l'architetto Walter Gropius, il fondatore della Bauhaus ( 1915-1925 ), la scuola di architettura e Industrial Design realizzata dapprima a Weimar e se innamorò. Decisa, Alma, lasciò Oskar e sparì per sempre dalla sua vita. Era il 1914. Il pittore sconvolto e disperato, dopo aver dipinto un quadro in qualche modo profetico, Il Cavaliere errante, dove si vede un soldato morto sul campo di battaglia, si arruolò volontario in guerra, nell'intenzione non propriamente di dimenticare Alma, bensì di trovare la morte in battaglia. Ed effettivamente ci andò vicino. Mentre era in perlustrazione a cavallo cade e viene colpito alla testa dalla pallottola di un soldato russo che, credendolo morto, non insiste e si allontana. Portato in salvo dai compagni il pittore viene inviato in un ospedale militare dove riesce a sopravvivere, ma in seguito è costretto a farsi ricoverare in una clinica psichiatrica per gravi disturbi nervosi. Nonostante l'avesse pregata più volte, fatta cercare, Alma non lo venne mai a trovare. Non si sa bene se anche la donna avesse un forte rancore nei confronti del pittore; in ogni caso la separazione era stata di certo traumatica anche per lei; solo che lei l'aveva elaborata più rapidamente soffocando il suo amore per Oskar e sostituendolo con quello nuovo e non meno travolgente per Gropius. Uscito a fatica dalle sue crisi nervose, che tuttavia non lo abbandonarono per il resto della vita, Oskar non riuscì a dimenticare Alma, anzi la sua passione prese risvolti sempre più traumatici alimentati dalla nevrosi, dal carattere chiuso, timido e scorbutico, tendente all'isolamento, forse anche da una certa strana caratteristica di famiglia che vedeva nei kokoschka persone con caratteristiche paranormali, capaci di provocare strani fenomeni e durante la relazione con Alma tali manifestazioni si erano spesso mostrate come anticipazioni profetiche di una storia destinata a finire male, compresa una incredibile invasione della casa dove abitavano da parte di rospi. Già quando era ricoverato a Dresda il pittore aveva pensato di farsi costruire un simulacro di Alma. Come dimostrano numerose lettere, Oskar scrisse ad un'artigiana di Stoccarda, Hermine Moos, di fabbricargli una bambola a grandezza naturale che avesse le fattezze ed il corpo di Alma.


Fotografia di Alma Mahler nel 1909

Abbiamo di Alma diverse fotografie dall'età di 18 anni quando conobbe Klimt sino a pochi un anni prima della morte nel 1964. In gran parte si tratta di immagini del volto ( questa fotografia di sopra mostra Alma con un prezioso collare che, prima di essere simile a quello che vediamo al collo della Giuditta di Klimt, era una moda molto in voga fra le ragazze dell'alta società viennese ), per lo più a mezzo busto. Abbastanza poche sono quelle a figura intera che comunque mostrano un bel corpo con un seno abbondante ma proporzionato e fattezze delicate e ben modellate. In genere la vediamo con grandi cappelli e con vestiti scuri. Durante il periodo passato con Oskar il pittore impose ad Alma vestiti molto lunghi ed accollati che evitassero quanto più possibile di mostrare le sue forme. Il pittore oltre alle fotografie possedeva molti disegni e tutto il materiale gli servì per dare la possibilità all'artigiana incaricata di costruire la bambola di essere più precisa possibile.

                                       Fotografia di Hermine Moss davanti alla sua creatura

Esistono diverse lettere con accurate descrizioni di come avrebbe dovuto essere la bambola, con tanto di misure, indicazioni sull'anatomia, disegni e aspetti proporzionali fra le parti. Tutto è precisato con assoluta attenzione, comprese le cuciture delle parti intime. Hermine realizza un'eccezionale bambola, ma l'effetto è inquietante e mostruoso e si può comprendere che il pittore all'inizio non ne fosse entusiasta e forse in cuor suo pensò di rimandare tutto indietro. Poi, però, con l'idea si abituò a quel manichino lasciato sulla poltrona di casa ed ordinò alla sua cameriera di servirla in tutto. La ragazza pensò a vestire la bambola, a metterle gli abiti che aveva lasciato in casa Alma, a farle indossare i gioielli che preferiva lei, le sue scarpe, i suoi indumenti intimi. La cameriera dove anche predisporre il mani chino nel letto del padrone di casa e farlo trovare nudo sotto le coperte. Oskar cominciò a vedere nella replica di Alma un possibile oggetto da possedere ed amare secondo un'inclinazione apertamente feticista che può essere spiegata come un gioco erotico di scambio fra la donna reale non più presente ed il suo simulacro che invece era presente e la faceva, in un certo qual modo, ri-vivivere con il pittore ed intorno ad esso. Oskar usò la bambola anche come modella per i suoi dipinti, come mostra Donna in blu, dove la donna raffigurata, malgrado Oskar abbia fornito una certa espressività al volto che comunque risulta abbandonato, è chiaramente un essere inanimato e che non vi è dubbio che rappresenti la bambola, magari con uno dei vestiti di Alma, che la Mahler lasciò in casa del pittore prima di andarsene ( ma esistono anche altri dipinti, come quello che pubblico in coda al post che mostra il pittore con la sua bambola ). Della bambola Alma venne a sapere e in una pagina della sua autobiografia ne parla sottolineando, non senza polemica, come il pittore avesse gradito per lei, un possesso e un controllo assoluti : "A Dresda si fece fabbricare una bambola a grandezza naturale con lunghi capelli biondi e la dipinse in modo da riprodurre perfettamente la mia immagine...Kokoschka parlava tutto il giorno con la bambola... alla fine mi aveva avuta nel modo che aveva sempre voluto: uno strumento docile e privo di volontà nelle sue mani" ( ed Castelvecchi, I, 1960, La mia vita. ). Il pittore scrisse, quasi furiosamente, per poter avere l'interessamento per lui da parte della donna; vi sono lettere addirittura del 1954, che dimostrano quanto si tratti di una vera ossessione. Oskar ricevette solo indifferenza e rifiuti. La Mahler aveva un pensiero spiazzante e devastante, credeva che le persone che hanno bisogno d'aiuto di fatto non lo meritano. Ed infatti la Mahler non venne mai in ospedale per trovare il suo ex amante, né peraltro lui poté vederla dopo, quando era tutta presa dall'infatuazione per l'architetto Walter Goprius, spirito democratico e libero, molto occupato a Weimar nella organizzazione della Bauhaus. Realizzato il manichino che possiamo vedere appoggiato in una delle pareti della casa del pittore, nelle numerose foto che il pittore e suoi amici avevano regalato. Alma aveva deciso di non farsi più vedere e mantenne infatti la sua promessa gettando nello sconforto più nero il pittore. 


Oskar Kochoschka, Donna in blu, 1919,   Staatsgalerie, Dresda
  

A Gropius non andò comunque tanto meglio. Dopo aver avuto anche una figlia da Alma venne da lei tradito per lo scrittore praghese Franz Werfel. Nel 1918, alla data del 15 dicembre, Alma a proposito della relazione appena iniziata può scrivere il una pagina del suo diario: "Che notte gloriosa! Werfel è stato da me. Ci stringemmo l'uno all'altra e sentimmo l'intimità più profonda delle nostre anime che si amano. Egli rappresenta una grande soluzione nella mia vita.". Gropius non la prese bene, anche lui era rimasto stregato da Alma e l'essere stato abbandonato da lei aveva causato nell'architetto una grande delusione e un conseguente esaurimento nervoso che lo portò addirittura a consultarsi con il giovane psichiatra Sigmund Freud che allora muoveva i primi passi in direzione della nuova scienza, la psicanalisi. In verità ad aver bisogno della consulenza psichiatrica del dottor Freud era certo più Kochoschka che Gropius, il rapporto fra il pittore e la sua bambola-amante-modella stava diventando ossessivo: la porta, ben vestita e truccata come Alma, per le strade, nei luoghi di ritrovo degli intellettuali, nei salotti, nei caffè, a teatro. Le sue stranezze determinavano derisioni da parte di amici e conoscenti non aiutando la sua carriera, per altro già minata in partenza non solo dal carattere difficile di Oskar, ma anche da una certa incomprensione critica che spesso la definiva " selvaggia". All'ossessione di Kochoschka può essere assimilata anche un'altra " bambola ", che figurava come la compagna dello scrittore russo Nicolaj Gogol. La vicenda, fantastica, è narrata in un racconto di Tommaso Landolfi, inserito nella raccolta " Ombre", intitolato " La moglie di Gogol". Lo scrittore aveva una moglie che non era propriamente un essere umano, ma una bambola gonfiabile, che, come racconta Landolfi, teneva segregata e che nessuno aveva mai visto in giro:" la cosiddetta moglie di Gogol, si presentava come un comune fantoccio di spessa gomma, e di color carnicino...Ma poiché le pelli femminili non sono tutte dello stesso colore, preciserò che in generale si trattava qui di pelle alquanto chiara e levigata, quale quella di certe brune...Pur poteva, certo, una volta mostrarsi magra, quasi sfornita di seno, stretta di fianchi, più simile ad un efebo che ad una donna: un'altra prosperosa o, per dir tutto, pingue. Mutava inoltre il colore dei capelli e degli altri peli del corpo...E così anche poteva apparir modificata in altre minime particolarità, come posizione dei nei, vivezza delle mucose...persino, in certa misura, del colore stesso della pelle. " Era lo stesso scrittore che era interessato a questi cambiamenti, la gonfiava ora di più, ora di meno, le cambiava la parrucca, la ungeva con vari unguenti e le ritoccava il volto a seconda del tipo di donna che meglio gli si confaceva in quel dato periodo e in quel dato momento. Nel racconto di Landolfi, la bambola aveva addirittura uno scheletro, degli occhi che si muovevano e persino organi genitali realizzati in modo tale da poter simulare quelli veri. La falsa donna, aveva una sua personalità e presto in lei si concretizzò anche un desiderio di autonomia; tendeva, cioè, a liberarsi da quell'aspetto di donna-oggetto che aveva fatto la felicità dello scrittore. Al culmine del delirio, fra amore spassionato e rabbia incontrollata, Gogol, una sera, davanti al camino decise di farla finita con lei: le infilò una cannula nell'ano e cominciò a gonfiarla senza fermarsi sin quando scoppiò in mille pezzi che lo scrittore bruciò nel camino. La bambola di Gogol è, naturalmente, una fantasia di Landolfi che riprese le suggestioni romantiche del fantastico e del mostruoso di Hoffmann è quindi ben diversa dalla bambola reale di Kochoshka, ma l'abbiamo citata in quanto rappresenta, in qualche modo un utile paragone: tanto nel racconto fantastico, quanto nella realtà la donna-oggetto fa la stessa fine. Infatti anche il pittore, una sera, dopo aver, forse, bevuto, inquieto per la sua gelosia, per il ricordo della vera Alma, per la rabbia che quell'oggetto non poteva che essere solo un fantoccio, senza vero corpo ed anima, durante un festino che Oskar stesso aveva organizzato per i suoi amici che erano venuti a divertirsi e a prenderlo in giro, prima taglia la testa alla bambola, poi la fa in mille pezzi e la getta nella spazzatura del giardino dove venne trovata la mattina dopo da alcune persone che avvertirono la polizia credendo che si trattasse di un barbaro orribile omicidio. Chiarito presto l'equivoco, il pittore, che era stato convocato negli uffici giudiziari, venne rilasciato. Liberandosi della finta Alma il pittore aveva creduto di potersi liberare dall'ossessione che la vera Alma gli aveva così a lungo procurato; ma era solo un'illusione. Nell'ottobre del 1927 Oskar è a Venezia, dove spesso di reca, quella volta vi si trova anche Alma, moglie di Franz Werfel, suo terzo marito, che possiede una casa sul Canal Grande. I due si incontrano a teatro, Alma con distacco ricorda nel suo diario :" oggi ho visto Oskar Kohoschka al teatro La Fenice...ogni notte si aggira per diversi bar, recita la parte del vitaiolo, sebbene di giorno dipinga". Le fredde parole di Alma evidenziano l'incomprensione dell'ex amante di Oskar, oramai estranea a lui ed alla sua vita. Ma per Oskar Alma restò un ricordo indelebile, continuò a cercarla e a scriverle senza mai ottenere risposta per tanti altri anni ancora: ossessionante fantasma di un amore distruttivo.  


                                 


sabato 24 gennaio 2015

Le agitate





                                              LE AGITATE

                                                                        Telemaco Signorini
      
                                                                LA SALA DELLE AGITATE


Telemaco Signorini, La sala delle agitate, 1865, Galleria d'Arte moderna di Ca'Pesaro, Venezia.



"La Sala delle Agitate al manicomio di Firenze è un dipinto che vi mette addosso i brividi della paura. E' un quadro che non mi piace, ma che esercita le spaventose attrazioni dell'abisso e che si rivela nell'autore una giustezza e una robustezza quali a pochi è dato di raggiungere" ( Giuseppe Giacosa )

" Se si pulissero le porte della percezione ogni cosa apparirebbe all'uomo come esse sono, infinite. Invece l'uomo vi è da se stesso rinchiuso, fino a non vedere più le cose, se non attraverso le strette feritoie della sua caverna" ( William Blake)


L'esposizione a Firenze della Sala delle agitate  provocò forti reazioni nel pubblico di cui dà testimonianza il drammaturgo Giacosa rivelando come il dipinto poneva di fronte ad una cruda realtà ignorata e che il pittore aveva in modo altrettanto crudo portata allo scoperto. Nel 1793 il medico francese Philippe Pinelle, aveva avviato la rottura del vecchio sistema carcerario del ricovero degli alienati, con l'istituzione di appositi luoghi di cura in cui i folli potessero trovare assistenza. In realtà la vantata liberazione di Pinelle allo stato dei fatti di rivelò solo un mito, in quanto non vi fu alcuna liberazione e gli alienati incontrati dal medico e da tutti gli studiosi dell'isteria e della follia del XIX secolo, come sentenziò giustamente un grande studioso della follia come Michel Foucault, vennero lasciati dov'erano al proprio destino. La costruzione di appositi luoghi o l'adattamento di altri, in genere vecchi conventi dismessi, non fece altro che aumentare la distanza, l'emarginazione, l'incomunicabilità, dei disadattati mentali, cacciandoli in un nuovo incubo. L'ospedale per malati mentali di San Bonifacio a Firenze, noto come l'Ospizio di San Bonifacio, malgrado le iniziative ed i proclami del noto medico psichiatra Chiarugi che si adoperò per alleviare le sofferenze degli alienati, di fatto fu un luogo di grande emarginazione sociale, più preoccupato di allontanare dalla città il pericolo del contagio e solo intenzionato a nascondere quella che era vista come una vergogna sociale. In effetti in Europa la paura della follia anche se non apertamente dichiarata era di fatto un'evidenza che tutti i governi avevano di fronte e che pertanto la casa di cura rappresentava una sorta di luogo necessario dove nascondere più che guarire. E questo nonostante dagli anni'70 del XIX in Francia si era avviato un dibattito sulla reale utilità dei manicomi che ebbe un riflesso anche in Italia come mostrano le considerazioni di Andrea Verga, un alienista milanese che nel 1879 chiedeva l'abolizione dei manicomi " luoghi infami di sequestri arbitrari e d'inumazione anticipata ".( in Roscioni, 2014, p.XIV ) . Quella di Verga è una posizione in realtà un po' isolata, non apertamente condivisa. Non vi furono voci altrettanto coraggiose e i luoghi di cura per alienati non vennero mai presi seriamente in considerazione come luoghi da revisionare radicalmente se non addirittura da chiudere. ma continuare ad essere luoghi di segregazione e d emarginazione sociale. Gli istituti di cura accoglievano in gran parte donne consegnate dalle famiglie o su imposizione giudiziaria, o sole, o abbandonate, o ancora perché sottratte a famiglie e familiari indifferenti o degeneri e non solo fanciulle, ma anche donne in età matura, donne mal maritate, sposate che mostravano atteggiamenti devianti, adultere o donne che avevano espresso comportamenti asociali  o pericolosi per la società. Il termine frequente che le racchiudeva era quello di isteriche ( da hysterion, utero, Ippocrate che per primo aveva parlato di questa malattia credeva che gli atteggiamenti anomali fossero dovuti a spostamenti dell'utero ). Gli studi di Charcot prima e successivamente di Freud, diedero all'isteria una descrizione scientifica, togliendo molti luoghi comuni e tentando cure che potessero guarirla, ma allo stato dei fatti, le espressioni patologiche isteriche continuavano ad essere trattate, per l'intero XIX secolo secondo metodi costrittivi. L'internamento, che spesso, come ha mostrato Roscioni, poteva portare a veri e propri abusi ( una delusione amorosa degenerata in una sorta di depressione maniacale diventava una sorta di isteria , una monomania affettiva che poteva condurre ad internamento ed isolamento ), era il mezzo di difesa della società dall'alienato e dello stesso alienato da se stesso. E nell'internamento erano praticati mezzi coercitivi gravi per far fronte all'agitazione: catene, legacci, sbarre, finestre ferrate, rinforzi alle porte e luoghi come stanzoni ampi ed alti e illuminati, sorvegliati dai guardiani. Dell'ospedale di San Bonifacio a Firenze di sapeva ben poco e molto si voleva ignorare, anche se, chi passava davanti, poteva sentire le urla che vi venivano . Telemaco Signorini, animato da quello spirito sociale di condivisione delle sofferenze degli emarginati e degli umili che attraversava la società post-risorgimentale si sentiva nella necessità di esprimere i suoi sentimenti populistico-umanitari attraverso la pittura, affermando un intento anche di denuncia sociale al pari di quanto stava facendo la letteratura naturalista di Zola. Si trattava di gettare uno sguardo nello scandalo, nel logo segreto e proibito della sua città che tutti conoscevano di nome e di triste fama, ma che tutti volutamente ignoravano. Prima di quel dipinto il suo interesse sociale e populista era rivolto all'esterno, al lavoro degli uomini in un contesto ambientale determinato. Nel 1864 aveva dipinto l' Alzaia. Le alzaie sono camminamenti lungo gli argini dei fiumi o dei canali nei quali si disponevano in fila indiana degli operai per tirare, alla stregua di animali da tiro che pure vi erano adoperati per lo stesso lavoro, le chiatte con carico. Nel dipinto la chiatta non si vede, si vede solo lo sforzo immane degli uomini piegati dallo sforzo mentre tirano le funi. 


                   
                                                    Telemaco Signorini, L'Alzaia, 1864, Collezione privata.
                       
E' una chiara denuncia sociale delle condizioni di sfruttamento della classe operaia sfruttata dalla borghesia imprenditrice, arrogante ed indifferente : si guardi a sinistra l'uomo ben vestito con tuba in testa che volta la schiena agli operai ignorando la loro fatica che sembra incuriosire il solo cagnolino nero che probabilmente appartiene allo stesso uomo isolato e indifferente.  Guardiamo come gli uomini in una scena di esterno tranquilla e serena, con un cielo limpido, hanno tutti la schiena piegata e la testa bassa contratti nello sforzo del lavoro che è soprattutto tormento, travaglio ( in francese travail  rende ancora meglio l'idea di cosa sia il lavoro vero come fatica ). A Parigi aveva visto le opere di Coubert e del suo realismo a forte denuncia sociale e si pensi al noto dipinto Gli Spaccapietre del 1849 ( oggi perduto, se ne hanno solo delle fotografie ), in cui l'occhio analitico del reale del pittore non tralascia alcun particolare dei segni di povertà e di emarginazione dei due operai, visti soprattutto nello sforzo e nella concentrazione del lavoro ingrato che stanno facendo. E sulla spinta di questa visione realista si accosta nella Firenze positivista e attenta alle nuove istanze della cultura europea, ad una scelta di denuncia sociale in cui il pittore può e e deve essere protagonista e diffusore al pari del letterato ( e sono anni di attività letteraria sulla scia del naturalismo da parte di Capuana, lo saranno in modo più esplicito a Maliano con Verga e nella stessa Toscana col Fucini del nascente Verismo ).   

                      La Sala delle agitate mostra un interno da una prospettiva per angolo di una stanza molto alta e abbastanza larga,  illuminata dalla luce del sole che proviene da una finestrella chiusa da sbarre a sinistra ( si veda la spina di luce più forte rispetto a quella diffusa sull'intonaco in terra, come se fosse un taglio, una ferita ). La luce diffusa sulla parete è chiara ma se alziamo lo sguardo lì non c'è traccia umana, solo uno spazio verticale liscio e biancastro. L'umanità è sotto, nascosta quasi, tutta attraversata dall'ombra e dal chiaroscuro. Guardiamo questa umanità di scarto: sono donne, ognuna identificata da un atteggiamento, da un gesto, da una posizione, alcune sono in piedi ( una alta al centro, tre a destra ), altre sono sedute a dei banchi, dei tavoli nudi ( una decina ), con dietro una spalliera ; una di esse però è in piedi dietro il tavolo o meglio è sollevata con atteggiamento isterico poggiando una mano sulla superficie e un'altra a pugno chiuso in alto, in atteggiamento oratorico, di leader invasato . Gli atteggiamenti delle altre sono vari : disperazione ( come la donna a sinistra che si copre il volto ), di deliquio ( come la donna che poggia la testa alla spalliera ) di depressione ( come la donna con lo sguardo fisso o come l'altra più avanti e più alla luce coperta dal cappuccio; la cui depressione ha forse un risvolto religioso di penitenza ). Una donna è sotto il tavolo; quella in piedi a destra, immobile e di profilo ha un atteggiamento altero, quella più indietro, che cammina oscilla verso destra e probabilmente il suo è un movimento maniacale di oscillazione del busto che il pittore ha fedelmente registrato. Lo scarto fra il grande spazio dato alla parete vuota, al soffitto alto e la prospettiva di taglio delle figurine umane è molto forte, identifica molto bene il senso di emarginazione, di solitudine, di abbandono. Lo spazio non amalgama né divide è qualcosa di estraneo, le donne protagoniste non stanno dentro lo spazio, è come se ne fossero espulse, respinte e non stanno nemmeno in relazione fra di loro : se guardiamo bene ognuna sta per sé, nessuna guarda l'altra. Ogni donna è un caso unano, una tragedia isolata. Questo aspetto di disposizione per angolo e di dislocazione addossata alla parete, degli emarginati, ritornerà in un dipinto successivo, Bagno Penale a Porto Ferraio  del 1890 ; dove lo spazio prospettico ad imbuto è dato dalle due direttrici laterali dei detenuti ( fra di essi, primo a destra, è il brigante Carmine Crocco ) addossati alle pareti durante una visita ispettiva. La luce viene dal fondo, dalla porta di ferro aperta sull'umanità dimenticata. La luce entra quasi con violenza in una tana di sepolti vivi, scoprendo l'orrore. Un orrore di tipo diverso, che fece meno scalpore, ma che nasceva dal medesimo tentativo di fare luce sugli scandali nascosti del Paese. Sull'Italia che non si voleva vedere. 

              
     Telemaco Signorini, Bagno Penale a Porto Ferraio, 1890, Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze

Se ben guardiamo anche qui, i detenuti con le catene, disposti in rigorosa riga lungo le due pareti sull'acciottolato regolare del pavimento sono assolutamente estranei gli uni agli altri, nessuno guarda il compagno, o fissa in terra, o resta immobile o distaccato ed estraneo  guarda fra incuriosito e infastidito l'autorità ben vestita che avanza scortata dalle guardie in bianco. C'è lo stesso senso di freddo distacco delle agitate. Questi dipinti, al di là della denuncia sociale, erano anche un'occasione cronachistica, ritraevano situazioni estreme, uniche, segrete; avevano anche la funzione indiretta di scatenare la curiosità. Il ritratto del brigante lucano è curato nei dettagli, del volto scuro, dei capelli, dei tratti del viso, della lombrosiana fronte bassa. Signorini, durante il soggiorno all'Elba deve avergli fatto vari schizzi in posizioni di luce diversa. Il colorito del volto attesta certamente il colorito naturale di contadino del sud, ma spicca rispetto al bianco deli altri per concentrare l'attenzione su un criminale molto famoso. Nessuna fotografia sua e ve ne sono diverse lo ha meglio ritratto, anche col ceffo e l'espressione strafottente. Così nella figurazione delle agitate contava anche l'effetto di una curiosità morbosa che la gente cercava nelle deformazioni e degenerazioni del popolaresco come attestano i successi delle illustrazioni dei romanzi popolari di Carolina Invernizio o le Tavole della Domenica del Corriere. Se si pensa alla folla di persone che veniva ad assieparsi dietro alla vetrata dell' obitorio dell'Ospedale Pubblico di Parigi descritta da Zola in Thérèse Raquin, si può avere un'idea di quanto gli eccessi del popolo, criminalità, prostituzione, follia, morte violenta, potessero diventare spettacolo, di come il dolore potesse essere sfruttato, dato in pasto alla folla. Naturalmente gli intenti di Signorini sono umanitari, ma è l'immagine che da sé diventa catalizzatrice degli sguardi, indiscreti e scandalizzati, ma anche morbosamente interessati. E da qui le reazioni di Giacosa che da buon letterato non aveva mancato di sottolineare come il dipinto fosse in grado di " mettere paura ".  Nella categoria del ritratto un posto a sé dovrebbe rappresentarlo il ritratto di alienato. Qui non si tratta della interpretazione figurativa di un personaggio letterario, si tratta della raffigurazione realistica di un folle o di una folle. Theodore Gericault nel 1822 dipinse 10 ritratti di alienati visti nell'ospedale parigino della Salpiètere. Ne abbiamo conservati solo 5 gli altri sono andati perduti; erano stati realizzati su precisa indicazione dello psichiatra francese G. J. Georget che era allora impegnato ella realizzazione d un suo testo scientifico sull'argomento. Ogni ritratto indica uno stato di alienazione mentale secondo le classificazioni del medico. Il ritratto che vediamo sotto è quello di una Alienata con monomania dell'invidia . 

                   
                    Théodore Géricault, Alienata con monomania dell'invidia, 1821, Lione Musée de Beaux Arts      

L'attenzione realistica del pittore romantico della Zattera della Medusa  è estremamente precisa, ma non è legata solo a ciò che egli aveva visto nell'ospedale, ma anche a ciò che quell'immagine doveva rappresentare: i segni della follia come alterazione del volto, l'estetica del malato. La luce centrale pone in rilievo la carnagione emaciata della vecchia, le labbra strette e gli occhi arrossati, lo sguardo innervosito, il lieve sorriso ebete, il povero abito, la bianca cuffia : tutti i segnali di una sensazione fissa patologica, quella di un'invidia di un qualcuno che non c'è se non nella mente. La luce rivela uno stereotipo. E' un ritratto d una donna per un museo di psichiatria, non è una donna. Né una donna matta. Quello che si propone Signorini è un'altra cosa; non gli interessa presentare una campionatura di tipologie alterate. Le donne sono visti da una certa distanza, la figura del volto si vede appena. Solo tre possono dirsi caratterizzate, la donna semi alzata a sinistra con il pugno stretto con rabbia che urla, la donna di profilo centrale, la donna di profilo opposto a destra. Ad agitarsi è soprattutto la donna di sinistra, con questo scatto violento dei due pugni: uno in alto, uno sul tavolo. Un atteggiamento ribelle ben caratterizzato. Le altre due sembrano belle statuine, forse hanno anche una funzione di regolazione della simmetria, specie la donna a destra in bianco posta fra due donne con abiti scuri in ogni caso, esprimono con quella loro fissità assoluta, anche di più della agitata il dramma della follia: l'assenza della parola, la chiusura all'esterno, il rifiuto dell'altro, del mondo, che è cose se non esistesse. Ed esprimono anche il senso della solitudine, del vuoto intorno a loro. Se guardiamo un altro quadro di denuncia sociale, sull'esempio di ciò che a Parigi andava facendo il grande Toulouse-Lautrec, La Toeletta del mattino , del 1890,  notiamo  come nella luce mattutina che riempie la stanza abitino altre emarginate della società, le prostitute, qui intente a farsi la toletta ( in realtà solo una seduta davanti allo specchio, mentre le altre aspettano sedute sul divano a destra ), osservate dagli uomini che ne saranno clienti. 

                                               Telemaco Signorini, La Toeletta del mattino, 1890, collezione privata
Se guardiamo la pavimentazione della Toletta, notiamo come essa sia simile al quadro coevo del Bagno penale  , come tratteggi linee di simmetria definendo la prospettiva dello spazio, ma anche come questa geometria perfetta, secondo la tradizione di casa, del grande disegno rinascimentale, finisca per fare da contrasto stridente fra l'ordine apparente dell'ambiente e il disordine del soggetto. Le donne qui non sono meno sole ed isolate nel luogo, con gli altri, anche fra di loro ( nessuna si guarda, si scambia sguardi d'intesa, ma anche i due uomini sono estranei: uno si limita ad osservare, ma è impaziente per l'attesa, l'altro se ne sta stravaccato sul divano ). I dati realistici  della pura osservazione erano stati incrementati sul piano stilistico dalla attenta osservazione degli impressionisti parigini ed in particolare di Edgar Degas divenuto poi suo amico ( il grande pittore francese visitò Signorini nel suo studio fiorentino negli anni'70 dove vide ed ammirò proprio La Sala delle agitate ) . In particolare si era interessato ai molti dipinti fra 1880 e il 1885 che mostrano l'ambiente della toeletta dove è mostrata in genere una figura intera o una mezza figura nuda. Ma nelle sue donne alla toeletta il grande pittore francese aveva visto soprattutto l'eleganza formale, la perfezione del nudo, la perfetta dislocazione fra figura umana ed ambiente. Non si trattava di donne che rappresentavano un documento umano  , come fa invece nella Toeletta Signorini, ma un'immagine di atteggiamenti realistici ( lavarsi, specchiarsi, pettinarsi ), realizzati come figurazione originale, perfetta, elegante ( e si pensi alle tante, straordinarie inquadrature di schiena ). L'idea della toeletta, dunque, da Degas, ma la toeletta, dalla vita. Non diversamente l'idea della follia, ma essenzialmente la follia. La posizione di rappresentazione del pittore è sempre dal fondo di uno spazio angolare, anche qui; nelle Agitate  questo spazio illuminato, pur presentando due centri di attenzione ( anzi tre, considerato anche il fondo presso la finestra a sbarre ) sui lati dell'ambiente, in gran parte tutto lo sguardo è direzionato pesantemente verso sinistra, dove le matte sono addossate alla parete alta. E' un'idea originale che piacque anche a Degas quando vide il dipinto nello studio del pittore e lo ammirò, come testimoniò Marcelin Desbordin, amico di entrambi e del critico dei macchiaioli Diego Martelli in una lettera al pittore. Anzi sembra che la posizione degli emarginati ai tavoli addossati alla parete fosse poi ripresa da Degas nel dipinto L' Assenzio del '75-'76.


L'assenzio
Edgar Degas, L'assenzio, 1875-76, Musée d'Orsay, Paris

In questo dipinto il grande pittore francese, presa consapevolezza dei grandi temi sociali affrontati dal Naturalismo, si era interessato alla descrizione dell'emarginazione : due esseri umani intorpiditi dall'alcol e dalla dilagante droga di moda a Parigi, l' assenzio, il liquido verde nel bicchiere della donna ( in quello accanto all'uomo è  vino rosso ), sono allineati lungo la parete; l'uomo, un clochard appoggia il gomito pesantemente per non perdere l'equilibrio, la donna, quasi certamente una prostituta, poggia la schiena alla parete di legno per cadere in avanti. Il taglio prospettico d'angolo dei tavoli a sinistra ha la funzione di separare e quindi di isolare i due emarginati, mostrando così, in modo più specifico, l'abbandono e il distacco dalla "normalità" della società civile. Era un'operazione che aveva già tentato appunto Signorini. 
Nelle Agitate, abbiamo detto, colpisce questo amalgama di luce e ombre, questa divisone fra ombra e luce. La tecnica alla macchia che il Signorini al pari degli artisti che si riunivano al Caffè Michelangelo a Firenze attorno al teorico Diego Martelli, era oramai se non disconosciuta almeno considerata superata dal pittore che se ne era servito sin dalla formulazione teorica e dalla sua applicazione pratica come base del dipinto, formata cioè dalla giustapposizione di macchia-luce e macchia-ombra ( o meglio ci colore-luce e colore-ombra ), in grado sia di fungere da colore in sé, sia da chiaroscuro; questa tecnica era però alla base della sua opera e, naturalmente, riaffiorava prepotente così come aveva avuto il su esordio felice nei paesaggi veneziani e liguri di La Spezia. Se guardiamo Le acquaiole , un altro momento in cui l'attenzione al popolare è particolarmente attenta, vediamo come la separazione fra luce ed ombra in un esterno rende efficace proprio la raffigurazione dello sforzo nel lavoro, concentrando l'attenzione di chi guarda sulle due donne che portano  a fatica l'acqua con le brocche disposte sulla testa, la cui ombra è proiettata sul muretto illuminato dal sole.

Telemaco Signorini, Le acquaiole, 1862, Collezione privata
Questa separazione fra luce ed ombra è poi ripresa nel chiuso ambiente delle Agitate  con un'intenzione diversa : le nuove intenzioni sociali dovevano dare un significato anche alla distinzione fra spazio illuminato e spazio in ombra; per cui le donne sono tutte relegate nello spazio in ombra, mentre la parete bianca e liscia e vuota e in piena luce solare, come il paesaggio a sinistra qui sopra: la soluzione serviva ad accentuare il sesno di disagio e di abbandono, di isolamento: come se la luce cacciasse nell'ombra infernale della follia le reiette della vita. Un altro particolare. Si noti la perfetta, quasi statuaria posizione della donna in rosso e blu al centro, naturalmente è una posizione imposta e necessaria per mantenere l'equilibrio e per portare il vaso d'acqua senza toccarlo con la mano ( il braccio è disposto con la mano sul fianco a destra, mentre a sinistra la donna regge un bastone, forse anche per equilibrio ). Il pittore ha posto attenzione alla modalità del lavoro. Ora, nelle Agitate vi è una donna a destra della Sala che è vista di profilo come questa donna. E' vestita di bianco, immobile, probabilmente con una camicia di forza; sembra stordita o allucinata, spicca benissimo in odo inquietante fra due donne vestite di scuro:si noti la vitalità anche cromatica di questa donna attiva, che lavora, caratteristica, e si noti come l'agitata sia some un fantasma, una specie di mummia; un essere devitalizzato. Entrambe hanno una loro dignità e una loro solitudine, ma l'agitata non può proporla o condividerla. E' morta e dimenticata. Questa attenzione al sociale non verrà praticata con continuità; è un po' il limite del pittore di non seguire un filone, una'idea, ma di adattarsi a varie situazioni. Tuttavia nelle poche escursioni negli "inferni" italiani, egli è stato l'unico pittore a guardare con occhio analitico e scandalizzato quanto non doveva essere visto e non solo nei luoghi eclatanti e proibiti, ma anche nell'ambiente del quotidiano rivelando angoli oscuri dove emergevano ombre semoventi di esseri dimenticati da dio e dagli uomini, come i quartieri popolari o il ghetto ebraico della civilissima Firenze.

           
Telemaco Signorini, Il Ghetto di Firenze, 1885, Collezione privata.
         Bibliografia:

Raffaele Monti, Telemaco Signorini, Giunti, Firenze, 2007
E. Spalletti, Il nuovo dopo la macchia. Origini e affermazioni del naturalismo toscano, Milano, 2009
Telemaco Signorini e la pittura in Europa, Mantova 2009, Mostra
R. Canosa, Storia del manicomio in Italia dall'unità ad oggi, Milano, Mondadori, 1979
Il governo della follia: ospedali, medici e pazzi nel'età moderna, a cura di Luisa Roscioni, Milano, Mondadori, 2014.
www.paolocardoso.com ( sulla storia del manicomio in Italia ) Il manicomio:asilo ed esclusione, 2011
M. Fubini Liuzzi, Per condurre ad onore. ( sull'assistenza sociale a Firenze in età moderna ), Firenze, 1999.
www.dacampo.altervista.com ( arte e pazzia )