giovedì 9 marzo 2017

Il primo tempo: Ritorno a Milano. La formazione



                                     IL PRIMO TEMPO

                                        Ritorno a Milano. La formazione



           " Studiò da fanciullezza per 4 o 6 anni in Milano con diligenza, ancorché di quando in quando facesse qualche stravaganza causata da quel calor e spirito così grande" ( 1620, ff 59-61 Biblioteca Marciana di Venezia, p. 45 della stampa, L'edizione critica con commento di Luigi Salerno è quella di Adraiana Marucchi del 1956 ). Il primo biografo, Giulio Mancini, archiatra di Urbano VIII, conobbe Caravaggio a Roma, forse in casa del cardinal del Monte. In questa prima osservazione, il lingiuaggio sobrio, asciutto del medico senese accenna, senza fornire ulteriori notizie o chiarimenti, che studiò a Milano con diligenza 4 o 6 anni ( ma il contratto prevedeva 4 anni di studio ); segnalando, sin dall'inizio della vita che il carattere del pittore era stravagante, portato a commettere delle trasgressioni e intemperanze dovute da " quel calor e spirito così grande ". Secondo la medicina ippocratica la bile produce calore ed evidenzia un carattere collerico e reattivo. Ma forse Mancini possedeva delle informazioni su episodi che vedevano coinvolto più volte Caravaggio, anche se poi non li racconta. Dunque il pittore quando la madre firma il contratto si trovava già nella casa e bottega milanese del pittore Simone Peterzano al Corpus Domini di San Giorgio al Pozzo Bianco in Porta Orientale. La chiesa si trovava presso l'attuale via San Pietro dall'Orto, una delle traverse di via Vittorio Emanuele II e viu restò sino al 1787, quando venne soppressa. La chiesa era anche detta di S. Giorgio della nocetta per la presenza di un noce che in seguito venne sostituito da un pozzo di marmo bianco da cui il nome della chiesa e della zona ( ma sembra che il nome venisse da una famiglia, Bianchi, per cui la dizione corretta sarebbe S. Giorgio al Pozzo de'Bianchi , furono gli stessi signori Bianchi a far realizzare un pozzo in mezzo alla piazza ). Ma ora è bene chiedersi: chi era Simone Peterzano? Prima che negli anni Cinquanta si intensificassero gli studi su Caravaggio e, di conseguenza, si cominviò anche a d indagare su questo pittore bergamasco di educazione professionale veneziana, il suo nome era per i più non molto diverso da quello di un Carneade. Oggi invece si sono fatti notevoli passi avanti per la conoscenza di Simone e, di conseguenza, per la formazione del giovane Caravaggio.

             Simome Peterzano era nato, probabilmente, nel 1540; non si sa bene, attestata l'origine bergamasca della famiglia, se nato a Venezia o a Bergamo. Secondo le ricerche di Gianmarco Petrò (si veda Gianmarco Petrò, I Peterzani fra Bergamo, Venezia e Milano, Documenti bergamaschi, Atti dell'Ateneo di Scienze, lettere ed arti di Bergamo, Bergamo, 2014, pp. 31-80 ), i Peterzani si erano trasferiti a Venezia, dove dagli anni Venti risiedeva il bisnonno del pittore e dove si trovava nel 1541 il padre, orefice bergamasco, Francesco di Maffeo. E' possibile dunque che Simone fosse nato a Venezia e in alcuni documenti egli arriva a firmarsi con l'indicazione di provenienza geografica civis venetus. Del pittore possediamo un autoritratto ( l'unico ), oggi in collezione privata romana datato 1589, dove si legge in basso SIMON PETERZANUS VENETUS TITIANI ALUMNUS FECIT , dove non solo si indica la possibile origine ma anche l'alunnato prestigioso presso la bottega di Tiziano a Venezia che sarà per lui il primo e più importante biglietto da visita. L'autoritratto mostra un uomo di quarantanove anni ( se nato nel 1540 ) con gorgiera ( un accessorio del costume aristocratico formato da pieghettature inamidate di lino bianchissimo forse lavorata a Burano da dove uscivano le manifatture delle gorgiere di moda all'epoca ), che non indica lo status  nobiliare ( i Peterzani appartenevano ad un ceto medio borghese di commercianti e artigiani ), bensì un segno di distinzione del ruolo sociale e dell'importanza raggiunta in quel momento, ma anche un'ostentata eleganza e un richiamo al maestro, indicato in basso, quasi fosse una testimonianza di'nobiltà' . L' uomo appare ben pettinato, con barba e capelli grigi, radi, incipiente calvizie, attenzione naturalistica anche per le piccole deformità della pelle come la visibile cisti sotto la sopracciglia destra, sguardo volitivo, penetrante e sbilenco rispetto all'osservazione in asse dello spettatore ( una modalità di cui si ricorderà nei suoi autoritratti Caravaggio, come ad esempio nel giovane al centro in fondo con in mano il cornetto, nella Musica di New York oppure nel cosiddetto Bacchino malato ).

Simone Peterzano, Autoritratto, olio su tela, 1589, Roma, Collezione privata
 
 Caravaggio, Bacchino malato, olio su tela, c.1596, Galleria Borghese, Roma 

Il rapporto con la pittura veneta, Tiziano e Veronese, è evidente nelle prime opere del Peterzano, a cominciare dalla bellissima Angelica e Medoro , alla Galleria Canesso di Parigi, eseguito a Milano prima del 1587 e lodato in alcune Rime dal Lomazzo ( il rapporto con Tiziano è segnalato dallo stesso Lomazzo nel Trattato dell'arte della pittura, Milano 1584 ) , cui si può aggiungere Venere Cupido e due Satiri oggi a Brera  che risente, come afferma Mina Gregori, della Venere del Pardo al Louvre ( Mina Gregori, Pittura a Bergamo dal Romanico al Neoclassicismo, Milano, 1991, p. 292. ). L'opera di Tiziano venne spedita nel 1564 a Filippo II, per cui, se Peterzano la conosceva bene, a questa data era ancora a Venezia ( Cristina Terzaghi, Simone Peterzano, in DBI, 2005, vol. 82 ). Sempre all'ambito veneto va ricondotta l'Allegoria della musica, con due musici, uno all'organo, l'altro al flauto traverso, ai lati di una seducente Venere a seno nudo che suona il liuto con un delizioso amorino che legge lo spartito in basso a destra. L'opera è databile intorno al 1580 ed è importante in quanto con essa Caravaggio poteva familiarizzarsi con ritratti di figure con strumenti musicali che torneranno nel Concerto di New York e nel Suonatore di Liuto dell'Ermitage di San Pietro Burgo. La Venere presenta tre redazioni differenti ( con Cupido e senza Cupido e in Concerto con i due musici che evidenzia piuttosto bene le fasi dello stile pittorico di Simone ( Enrico Maria Dal Pozzolo, L'allegoria della musica di Simone Peterzano allievo di Tiziano e maestro di Caravaggio, Firenze, Polistampa, 2002, p. 4 ). La prima menzione del pittore è comunque in un documento del 1575, in cui appare già come maestro di bottega: si impegna, infatti, ad insegnare a dipingere alla rabesca e a fare ritratti ad un allievo, Francesco Alciati ( Antonio Morassi, S. P. in Boll. d'Arte, XXVIII ( 1934-35), pp.103-115). A questa data, dunque, la bottega doveva essere già attiva e l'arte del ritratto doveva essere una specializzazione di Simone, sebbene non ne abbiamo conservati esempi. L'autoritratto era un'altra delle attività di Simone e lo era anche il dipingersi nelle vesti di un personaggio della storia raffigurata, un esempio che ritornerà più volte in Caravaggio ( un personaggio vestito di nero con gorgiera e cappello che si affaccia nella tela di S. Paolo e S. Barbara a Listri è identificato in tal senso dal Valsecchi , Nuove aggiunte al Peterzano in Studi in onore di Antonio Morassi, Venezia, 1971, pp. 172-183 ). L'Angelica e Medoro , di cui si è parlato, è ricordata dal Lomazzo in modo alquanto particolareggiata e ampiamente lodata, pertanto doveva essere stata dipinta già nel 1572 prima che il pittore trattatista diventasse cieco e comunque prima del 1573 quando l'artista dipinse gli affreschi di S. Maurizio per evidenti affinità stilistiche e perché il garante del pittore per questi affreschi è lo stesso committente del dipinto, Gerolamo Legnani o Legnano ( Robert S. Miller, Simone Peterzano in Milan, concracts for frescoes in San Maurizio and San Francesco Grande and other documents, in Paragone, 1999, n. 597, p. 92 e Maria Teresa Fiorio, Il grottesco nell'arte del Cinquecento, Catalogo, Lugano, 1998, pp. 284-285, n. 105 ). Quando Peterzano nel 1575 firma il contratto per San Maurizio non è ancora residente a Milano, ma ancora a Venezia, lo sarà poco dopo.
Nel 1572 quindi, sebbene ancora non residente, Simone è a Milano, qui realizza gli affreschi della controfacciata di S. Maurizio nel monastero maggiore ( Maria Cristina Terzaghi, Simone Peterzano, DBI, vol. 82, 2015 ) terminati nel 1573 e nell'agosto di quell'anno lavora agli affreschi di S. Barnaba a Listri, dove realizza i teleri laterali del Presbiterio ( Terzaghi, 2015 ), di cui il primo fu donato alla chiesa da un altro importante committente milanese, Gian Giacomo Trivulzio che fu determinante nel suo inserimento nella vita artistica e culturale milanese.


Simone Peterzano, Angelica e Medoro, olio su tela, c.1572, New York, colle. Canesso
Nel febbraio del 1577 l'artista, chiamato qui " Simone veneto", risulta impegnato al collaudo degli angeli in marmo del Coro del Duomo di Milano e nello stesso anno realizza un'Annunciazione per il Seminario Maggiore di Venegono inferiore ora al Museo Diocesiano di Milano; tema altre volte trattato dall'artista; in queste opere si assiste ad un progressivo distacco dal venetismo evidenziando una attenzione  maggiore all'anatomia della figura umana e meno al paesaggio di ascendenza veneta. Il 31 ottobre del 1578 il Peterzano si impegna nella realizzazione di un importante ciclo di affreschi nella Certosa di Garegnano realizzati dal 1578 al 1582. Un grande impegno decorativo nel quale non poté non aver coinvolto gli allievi della sua bottega. Gli affreschi, del Presbiterio, si trovano nella parete destra Adorazione dei Magi, in quella di sinistra, Natività, la Crocefissione nel catino dell'abside, negli spicchi della Cupola, Otto angeli con i simboli della Passione e nei Pennacchi con 8 evangelisi, 8 Profeti e 8 Sibille. Nell'Occhio della Cupola l'Eterno. Il giovane Caravaggio non poté partecipare a questi lavori come aiuto perché non ancora nella bottega del Peterzano, tuttavia essi dovettero essere oggetto di studio, magari imposto dal maestro. Nel periodo in cui Caravaggio stava dal Peterzano non c'erano più i ponteggi necessari per arrivare sino ai pennacchi della cupola, ma in bottega dovevano sicuramente essere conservati i disegni ed i bozzetti che potevano permettere un'analisi più ravvicinata dei soggetti. Alcuni sono interessanti perché le pose si ritrovano in opere del Caravaggio. Parliamo, ad esempio, della Sibilla Persica, la cui posa è rinvenibile nel Bacchino Malato della Galleria Borghese ( la posizione del braccio con la mano vicino alla bocca, Mina Gregori, I ricordi di Caravaggio, in AA.VV, Gli occhi del Caravaggio. Gli anni della formazione, a c. di Vittorio Sgarbi, Cinisello Balsamo, 2003, p. 88 ), il cui disegno del Peterzano è presente nella Raccolta del Castello Sforzesco di Milano ( Gabinetto dei disegni e delle Stampe, Gregori, cit., p.88) oppure dell'Evangelista Giovanni da mettere in chiaro confronto con il primo S. Matteo della Cappella Contarelli in S. Luigi de' Francesi a Roma, con la gamba scoperta in primo piano figurativo ( Gregori, 2003, ) .


A sinistra Simone Peterzano, Evangelista, Certosa di Garegnano, Milano, a destra Caravaggio, S. Matteo e l'angelo

Più o meno nel periodo in cui Caravaggio era già a bottega, 1584, Peterzano aveva realizzato affreschi nella chiesa oggi scomparsa di S. Maria della Scala a Milano. Nella cappella della Veronica realizza la Deposizione di Cristo  realizzata fra 1583 e 1584 ( la Veronica, cioè la donna che asciugando il volto di Cristo sofferente e insanguinato ebbe il drappo impressionato dal suo volto, è citata in fondo a destra del dipinto ). Di questo dipinto e della figura di Cristo deposto si ricorderà Caravaggio quando a Roma, realizzerà la sua Deposizione di Cristo oggi ai musei Vaticani in origine destinata alla chiesa Nuova alla Vallicella e dipinta fra 1600 e 1604 ( si veda l'accurata anatomia del torace di Cristo ). 


Simone Peterzano, Deposizione di Cristo, 1583-84, chiesa di S. Fedele, Milano, 
Caravaggio, Deposizione di Cristo, Olio su tela, 1600-1604 Musei Vaticani, Città del Vaticano

  
          Caravaggio lascia la bottega nel 1588 circa per avviarsi alla professione libera di pittore ( anche se è possibile che continuò a frequentare il pittore bergamasco-veneto come collaboratore , Giacomo Berra Il Caravaggio a Milano. La nascita e la formazione artistica, in AA.VV Da Caravaggio ai caravaggeschi, a cura di Maurizio Calvesi, Roma, 2009, pp. 19-68; p. 38 ). Caravaggio si trasferì nella zona dove aveva già abitato con i genitori, nei pressi di S. Vito in Pasquirolo e, in una parrocchia, come abbiamo già visto, non propriamente tranquilla e anzi piuttosto segnata da criminalità di strada, fra bische e bordelli. Proprio per S. Vito, nel 1589, Simone Peterzano realizza la Madonna con Bambino con i santi Francesco e Margherita, oggi nella quadreria dell'Arcivescovado di Milano, siglando il contratto con Cesare Rusca, priore della Confraternita del SS.Sacramento. Giacomo Berra, cit., 2009, ha ipotizzato che al dipinto, un olio su tela, potesse avervi partecipato lo stesso Caravaggio, Fra il 1585 e il 1590 non risultano documenti milanesi sul Peterzano e la presenza di citazioni puntuali in una tela con la Resurrezione  alla Certosa di Garegnano, che faceva parte della imponente decorazione della chiesa, con la Conversione di S. Paolo a S. Marcello al Corso a Roma, dipinta da Taddeo Zuccari ( i corpi dei soldati in basso con le possenti anatomie ritratti per bagliore improvviso )  fa pensare ad un viaggio di Simone a Roma sul quale, però, non esistono documenti ed è stato decisamente smentito dal Berra, 2005, p. 210 e 2009, p.37.


Giulio Romano, Flagellazione di Cristo, Tavola dipinta, c.1520, Santa Prassede, Sacrestia, Roma


                 Maurizio Calvesi ( Maurizio Calvesi, Simone Peterzano, Boll. D'arte, 1954, p. 115 ) invece sostiene l'ipotesi del viaggio che avrebbe comportato anche la realizzazione di un'opera in Santa Prassede, la bellissima tavola dipinta, ora in sacrestia, con la Flagellazione di Cristo, alla quale avrebbe partecipato come assistente Caravaggio ( Claudio Strinati sostiene addirittura, ma senza alcun appoggio documentario, che si tratterebbe di una prima opera del Merisi , Claudio Strinati, Quesiti caravaggeschi in Una vita dal vero, Catalogo della Mostra dell'Archivio di Stato sui documenti che riguardano Caravaggio, a c. Di Sivo, Verdi, Lo Sardo, Roma, 2011, p. 26, nota 1 ). Calvesi parte dalla considerazione che il dipinto oggi nella Sacrestia non sia in realtà quello originario di Giulio Romano indicato dal Vasari ( Vasari-Milanesi, Vita di Giulio Romano,  Firenze, Sansoni, 1906, V, p. 532 ) e commissionato dal cardinal Bibbiena, ma appunto un altro più tardo dipinto che lo studioso attribuisce al Peterzano e che potrebbe essere stato commissionato invece da Carlo Borromeo titolare di Santa Prassede dal 1559 al 1565 e poi, per volontà dello stesso cardinale in relazione con i Gonzaga di Mantova, sostituito quindi ad un vero originale di Giulio che aveva altra figurazione, con un notturno rischiarato da una donna che regge una fiaccola, come si evince dalla descrizione che ne aveva fatta lo studioso di Giulio Romano, D'Arco ( Maurizio Calvesi, I documenti e d'altro, in Storia dell'arte, CXXVIII, 2011, pp. 33-44; pp.35-40 ). Ora, come riconosce lo stesso Calvesi, uno studio approfondito sul dipinto di Giulio a Santa Prassede è quello di Ilaria Toesca ( La Flagellazione a Santa Prassede, Paragone, 193, 1966, pp. 79-85 ) , dove si riporta un documento importante, l'inventario di Santa Prassede ( uno dei pochi documenti che si sono salvati dalla distruzione dell'archivio della chiesa ): " nelle mani in atto di flagellarlo."Vedesi un quadrio di giusta grandezza, dipinto in tavola, fatto fare dal Cardinale Bernardo Tarlato, più cognito come Cardinale di Bibbiena. Il medesimo quadro contiene tre figure di grandezza naturale e quasi nude...ritto in piedi, con le mani legate per il di dietro a una colonnetta della stessa grandezza di quella esistente nella S. Cappella. Le altre due figure rappresentano i manigoldi con fasci di verghe  in atto di flagellarlo" . Il Calvesi osserva che il Cristo non è legato alla colonna ma ha le mani legate, alla colonna, invece è legato l'altro Cristo, quello della copia mantovana che lo studioso sostiene essere copia dell'originale di Giulio. Ma tutto il resto della descrizione è molto preciso e il copista deve aver, senza avere sotto mano alcun disegno o copia, fatto un errore, immaginando che il Cristo non poteva non essere legato alla colonna che si trova nella Cappella sul cui altare maggiore si trovava il quadro di Giulio Romano prima di essere spostato in sacrestia. L'inventario, inoltre, correttamente riporta la committenza del Bibbiena. Se, poi, supposto che Peterzano fosse venuto a Roma ( ma non ci sono documenti che lo dimostrano e in una bottega vi sono sempre copie e stampe di quadri famosi, come doveva esserlo quello in S. Marcello al Corso e quindi non c'è bisogno di venire a Roma per vedere questo o altro dipinto ), nel 1584 era sicuramente a Milano quando firma il contratto col Caravaggio e nel 1587 è impegnato a lavorare alla Madonna del Rosario iniziata da Pellegrino Tibaldi; quindi se viaggio vi fu dovette essere realizzato prima del 1587, ma, ripeto, non se ne sa nulla. Va anche detto che Carlo Borromeo, che aveva ottenuto il titolo di S. Prassede nel 1564, lasciata Roma per diventare arcivescovo di Milano, si occupò intensamente della sua diocesi sin quasi alla morte avvenuta il 3 novembre del 1584 ed è difficile che pensasse alla committenza per S. Prassede che in ogni caso non avrebbe potuto fare a questa data. Si può aggiungere che gli artisti cari al Borromeo sono soprattutto altri, l'architetto-pittore Pellegrino Tibaldi, il Cerano, specie Giulio Cesare Procaccini autore di Estasi di San Carlo a Brera e Tanzio da Varallo, autore di S. Carlo comunica gli appestati e dei Sacri Monti voluti da S. Carlo a Varallo, a Varese, Daniele e Giovan Battista Crespi. Il Peterzano era certo un allineato ai dettami delle Istrutiones compilate dallo stesso arcivescovo e applicate quasi alla lettera nei dipinti della Certosa di Garignano e all'opera di Gabriele Paleotti, personale amico del Borromeo e autore del Discorso sopra le immagini sacre e profane ( 1582 ) che stabiliva i precetti di raffigurazione pittorica secondo i dettami del Concilio di Trento, ma non un pittore preferito ( non vi sono documenti di sorta che dimostrano una qualche preferenza o attenzione in tal senso ). A chiudere il discorso della Flagellazione di Giulio Romano ( o della sua bottega, Penni o Polidoro ), va segnalato che l'opera è descritta accuratamente dalla guida antiquaria del Dalmazzoni, Roma, L'antiquario, 1804 e assegnata a Giulio  e da Etienne Achille Révèil e Jean Duchesse, Museo di pittura e scultura, Roma, 1838, p. 66. Pertanto il Dizionario dela Besson Aureli, del 1915, che indica una Flagellazione in Santa Prassede di Simone Peterzano citato da Calvesi ( Boll. d'Arte, 1954 ) , peraltro unico documento, è errato e forse indica un'opera di Peterzano un tempo in S. Prassede a Milano, poi scomparsa. La Flagellazione di S. Prassede a Roma al massimo è databile al 1520, sebbene presenti straordinarie novità luministiche ( e per questo poteva essere di solo di un grande come Giulio e non di un'artista di bottega, anche della sua bottega ), è quella commissionata dal cardinal Bibbiena e non ha nulla a che vedere col Peterzano e tantomeno con Caravaggio che secondo Calvesi avrebbe completato l'opera. Carlo D'Arco studioso di Giulio Romano descrisse nel 1838 non l'originale a Roma, che forse non ricordava bene, ma un dipinto simile che esisteva a Mantova e che era della Bottega di Giulio. Certo vi possono essere corrispondenze stilistiche di panneggi e anatomie fra opere del Peterzano e la Flagellazione , ma si tratta sicuramente a riferimenti di stampe o copie di bottega. Del resto lo studio del Morassi, che non parla del viaggio di Simone a Roma ( che può essere comunque ipotizzato trascurando impegni lavorativi ma solo come viaggio di studio ) , parla di una evidente influenza da Giulio Romano ( p. 111 ). E lo stesso Caravaggio che mai e poi avrebbe potuto realizzare una tavola del genere specie al suo arrivo a Roma nel 1596-97, potrebbe essere stato influenzato dallo stesso Giulio e dalla tavola della Flagellazione a Santa Prassede, della quale si ricordò quando realizzò a Napoli la Flagellazione ,ora al Museo di Capodimonte ( Cristo anche qui fra due manigoldi fustigatori ). E' chiaro che l'attribuzione a Peterzano della tavola con la Flagellazione serve a reggere il pilastro della costruzione di un rapporto e di una influenza borromaica su Caravaggio ( da parte di Federico Borromeo, nuovo arcivescovo di Milano dopo la morte di Carlo ), che sono tutte da dimostrare.

             Caduto questo scomodo appiglio, conviene vedere la presenza di Caravaggio da un'altra parte. Pensiamo alla Deposizione della Chiesa di San Fedele a Milano, del 1583-84 che richiama la Deposizione della Chiesa Nuova, ora ai Musei Vaticani e soprattutto ad un'altra Deposizione, poco conosciuta, di Bembrate, da poco restaurata e assegnata dall'Agosti e dallo Stoppa al Peterzano, Si tratta di un'opera di bottega, appunto quella di Peterzano, eseguita probabilmente nel 1584, che presenta con chiarezza la presenza di più mani come ha evidenziato il restauratore Lo Sardo. Al Peterzano, al maestro, spetta la figura di Cristo, con l'accurata armoniosa e livida anatomia del costato nudo ed il bel volto barbuto e reclinato, mentre la figura dell'angelo evidenzia la mano di un allievo, è ancora acerba, un po' secca, ma evidenzia un grande talento: Caravaggio!. ( Michele Azzimonti, 23 aprile 2013, quotidiano Il Giorno, Dietro la pala di Simone Peterzano il giovane Caravaggio, Giovanni Agosti, Jacopo Stoppa, Marco Tanzi, Francesco de Tatti e altre storie, Milano, Officina, 2011, pp. 38-39 ) . Sebbene il prof Jacopo Stoppa pensi che tutta la bellissima composizione sia opera del maestro Peterzano, resta come curiosità interessante il fatto che la testa dell'angelo abbia un impatto in qualche modo riconducibile a Caravaggio.

Simone Peterzano e aiuti, Deposizione di Cristo, c.1584, chiesa di Bernate
Se per la figura di Cristo deposto il pensiero corre alla Deposizione della Chiesa Nuova, dove non c'è nessun angelo, l'angelo che guarda il Cristo con un lieve sorriso non ci sembra molto diverso da quello che guarda S. Francesco nel S. Francesco in estasi del Wadsworth Athenaeum di Hartford (  Connecticut, USA, 1596c ). Se guardiamo il volto del giovane Francesco possiamo in qualche modo paragonarlo a quello del giovane Cristo della pala della Deposizione di Peterzano e avere, quindi, un ulteriore referente pittorico di confronto. L'ala dell'angelo usata dal Merisi rivela invece di essere posticcia, applicata o appoggiata alle spalle del modello che è un giovane ragazzo, a differenza delle due secche ali grigie, poco particolareggiate dell'angelo di Bembrate, ma più realistiche anche in rapporto al corpo dell'angelo che le tiene sulle spalle.


Caravaggio, S. Francesco in estasi, Wadsworth Athenaeum, Hartford ( Connecticut ), c. 1596 

            Naturalmente l'occhio del Caravaggio aveva bisogno di spaziare, di inserire nel campo visivo del giovane pittore quante più opere possibili, Ora abbiamo visto quelle del suo maestro Simone Peterzano che poteva studiare da vicino più facilmente, ma lo stesso maestro oltre a parlargli dei grandi esempi veneziani, in primis Tiziano, raccontandogli dell'impressione di stupore che fece in laguna l'esposizione della Madonna dell'Assunta a S. Maria dei Frari a Venezia, o delle tenebrose tele del Tintoretto della Scuola Grande di S. Rocco o ancora le luminose tele del Veronese all'Accademia. A Milano, inoltre, gli avrà parlato dell'incontro artistico fra Tiziano e Giorgione nel Fondaco dei Tedeschi e dell'intensa attività di ritrattista del Cadorino sicuramente e gelosamente conservata nella raccolta in copie e stampe nella sua bottega. Racconti del passato veneziano di Peterzano che certo dovevano essere importanti e ricchi di notizie ed aneddoti. A Milano poi Caravaggio poteva vedere in Santa Maria delle Grazie il Cenacolo di Leonardo e a San Francesco Grande la seconda versione della Vergine delle Rocce oggi alla National Gallery, di Londra. In bottega da Peterzano poteva trovare poi una fornita biblioteca, stampe e copie di opere d'arte, i trattati di pittura come quello di Leonardo e del Lomazzo. Ad esercitare l'occhio del giovane pittore furono anche i cosiddetti" quadri di lume" ( notturni in cui una o più fiaccole rischiara la scena ),  come il Martirio di San Lorenzo conservato a San Paolo Converso, segnate da forti contrasti di luce-ombra importante per il Caravaggio in formazione.


Antonio Campi, Martirio di San Lorenzo,  1571, San Paolo Converso, Milano


A questo dipinto possiamo aggiungere anche la bellissima Conversione di San Paolo di Alessandro Bonvincino detto il Moretto, in Santa Maria presso San Celso del quale Caravaggio si ricorderà per la sua Conversione di San Paolo in Santa Maria del Popolo, trasformando il luminoso dipinto con un cavallo curiosamente imbizzarrito e ammansito allo stesso tempo e un San Paolo seduto e stupito con una drammatica scena di interno dove la luce dall'ambiente passa alla stalla: dalla luce del giorno alla luce della salvezza che Paolo di Tarso accoglie a braccia aperte,

A sinistra Alessandro Bonvicino detto il Moretto, Conversione di San Paolo, S. Maria presso San Celso, Milano, a destra Caravaggio, Conversione di San Paolo, S. Maria del Popolo, Cappella Cerasi, Roma.

E ancora possiamo citare S. Matteo e l'Angelo del Savoldo, del Metropolitan di New York, databile al 1530-1535, Forse destinato ad abitazione privata, uno studiolo, o secondo altri alla Zecca di Milano. Si tratta di uno stupendo" quadro di lume" con la candeletta in pirimo piano che illumina l'abito pieghettato e il volto ispirato di Matteo mentre accanto a lui, nell'oscurità di uno studiolo, si accosta un angelo che lo guarda in volto e che Caravaggio può aver tenuto presente, al di là del lume, per la sua opera S. Matteo e l'Angelo della Cappella Contarelli in San Luigi de'Francesi a Roma, nella prima versione, in cui l'angelo non scende dal cielo come nella seconda, ma è allo stesso piano del Sangto Evangelista.

Gerolamo Savoldo, Matteo e l'Angelo, 1530-1535, Metropolitan Museum, New York

Come suggerisce Adrea Dusio ( Caravaggio, Whithe album, Roma, Cooper te, 2009, p.20 ), il giovane Merisi poteva aver ripreso l'idea del chierico che fugge per il Martirio di san Matteo dalla Cacciata dei mercanti dal tempio di Peterzano, a San Maurizio. Un altro pitore molto seguito da Caravaggio giovane era Aurelio Luini, certo di qualità nettamente inferiore al padre Bernardino, ma comunque di certo originale nella scelta e nel trattamento naturalistico dei soggetti, dagli aspetti paesaggistici, alla figura umana nei gesti, nell'incarnato, nei volti. Aurelio era amico del Lomazzo e con lui frequentava l'Accademia della Val di Bleio, sorta di cenacolo di artisti, musici, attori, letterati, artigiani, che si dedicavano a composizioni grottesche, spesso ambientate in osterie, fra risse, sottintesi sessuali, poesie burlesche, condivisione di studi proibiti come la Cabala, la Magia Naturale di Avicenna, la Teologia orfica, che avevano come loro idolo e protettore Bacco. Questa Accademia, di cui si sa ancora poco ( il Lomazzo ne parlò diffusamente nei suoi Rabisch, sorta di composizioni burlesche in dialetto facchinese della valle del Ticino oggi in territorio svizzero ) e di cui torneremo a parlare in un altro capitolo, oltre alla condivisione poetica di componimenti in stile bernesco e burchiellesco, oltre a rappresentazioni comiche affidate alla compagnia dei Gelosi che vi faceva parte, si occupava anche, nelle riunioni segrete, di composizioni figurative caricaturali e grottesche derivate da studi leonardeschi e delle quali Aurelio Luini, che possedeva un libretto con caricature di Leonardo perduto, era uno dei più abili realizzatori come mostrano varie caricature che si possono vedere alla Biblioteca Ambrosiana. Queste figure 'caricate' evidenziavano gli 'affetti', gli atteggiamenti, le espressioni della figura umana che venivano così estremizzate. Va detto che queste attività si svolgevano a margine della committenza borromaica che era strettamente legata all'ortodossia controriformistica e mai avrebbe accettato qualsivoglia deviazione o addirittura scelta oppositiva e contradditoria, se non persino pericolosa. Lo stesso Aurelio Luini era stato sottoposto a controllo dell'autorità ecclesiastica e della polizia e un Breve di Carlo Borromeo, estremamente severo quanto poco chiaro, gli impediva, per alcuni mesi, l'esercizio della pittura ( G. Bora, Aurelio Luini, in Pittura a Milano. Rinascimento e Manierismo, a cura di Mina Gregori. Milano, 1998, pp. 265-266 e 277; G. Bora, dellaAurelio Luini. Rabisch. Il grottesco nell'arte del Cinquecento. L'Accademia   della Val di Blelio, Lomazzo e l'ambiente milanese, Catalogo della mostra, Lugano, 1998, a c. di M. Kahnn-Rossi e F. Porzio, Milano, 1998, p. 340 e sgg. ). Probabilmente l'inibizione all'esercizio della pittura dovette dipendere soprattutto alla frequentazione dell'Accademia irriverente della Val di Blenio di cui egli era membro importante insieme agli amici pittori Lomazzo e Semino. Il pittore riprese la sua attività solo dopo la morte di Carlo Borromeo. Lavorò in S. Simpliciano nel 1588 e nella Fabbrica del Duomo poco dopo per la decorazione delle ante dell'organo il 12 aprile del 1590, per le quali lavorarono anche il Fabbricini, il Ficino e Simone Peterzano ( Pietro Marani, Aurelio Luini, DBI, vol. 66, 2006 ). E' da credere che Caravaggio in questo periodo già conosceva tanto il Luini, il Lomazzo e il Ficino e che, probabilmente, anche lui ne sapesse qualcosa dell'Accademia della Val di Blenio. A questa Accademia partecipò anche il pittore genovese Ottavio Semino che aveva decorato Palazzo Marino ( oggi il Municipio di Milano ), progettato da Galeazzo Alessi. Semino conosceva molto bene Gian Paolo Lomazzo che dell'Accademia era il fondatore. Come il Luini anche il Semino partecipa attivamente alle attività degli accademici, inserendosi in quella Milano alternativa, profana, laica. Di lui scrive nel suo Trattato Gian Paolo Lomazzo includendolo fra i pittori" ingegnosi e capricciosi nei sovvertimenti di carte, cartocci, scudi, epitaffi, festoni e simili" ( Giovan Paolo Lomazzo, Trattato dell'arte della pittura, scultura et architettura, Milano, ed. Del Monte, Milano, 1844, Ied. 1585, p. 350 ). A tal proposito c'è da chiedersi se Caravaggio, che pure a Roma aveva avuto accesso in casa del marchese Giustiniani ad una ricca collezione sull'antico, formata da diverse statue di marmo e che poteva aver visto diverse opere di Michelangelo che tornano nella posa dell' Amore Vincitore, già a Milano, quando ancora era a bottega di Simone Peterzano non avesse visto opere ispirate alla scultura michelangiolesca: ed ecco, quindi, che potrebbe aver ricordato un affresco proprio del pittore genovese Ottavio Semino in palazzo Marino, la cui posa ricorda molto l'Amore vincitore  del Merisi dipinto per il marchese Giustiniani ora alla Gelmaldgalerie di Berlino ( Emilio Negro e Nicoletta Roio, Caravaggio illuminato, in  AA.VV., Caravaggio e i caravaggeschi in Emilia, Modena, Artioli, 2014 ) . Dovendo parlare di referenti figurativi che potevano interessare Caravaggio

Ottavio Semino, Mercurio, affresco,c. 1575, Palazzo Marino, Milano



Caravaggio, Amore vincitore, 1602, olio su tela, Gelmaldegalerie, Berlin




Nel 1587, di ritorno dai suoi successi in Austria e a Praga, tornò a Milano Giuseppe Arcimboldi, già ampiamente famoso per le sue teste composite , bizzarre composizioni di teste umane tramite un assemblaggio apparentemente disordinato di frutti e verdure, nature morte antropomorfe che, in qualche caso, rovesciandole diventavano vere e proprie nature morte dentro contenitori, si beda ad esempio nell'Ortolano o ortaggi in una ciotola che ha due possibili interpretazioni visive: dritta mostra la testa dell'ortolano fatta di ortaggi, riversa evidenzia invece un contenitore con gli stessi ortaggi dentro. Arcimboldo e le sue celebrate bizzarrie così rinomate presso la corte asburgica, avevano la funzione di rappresentare una cultura figurativa altra, estranea alle rigide disposizioni della pittura riformata, una cultura che si serviva delle concezioni esotereiche, caballistiche e della magia naturale e che trovò alla corte di Praga di Rodolfo II il suo incontro più felice, in quanto in quell'ambito sociale si sperimentavano concezioni esoteriche e alchimistiche che tanto interessavano a Rodolfo. Le opere di Arcimboldo, usate anche come doni preziosi negli scambi diplomatici, andarono ad arricchire la già preziosa kunstkammer di Rodolfo a Praga, dove il bizzarro, l'esoterico e il meraviglioso naturale si incontravano in un felice connubio. E' chiaro che a Milano, il ritorno di Arcimboldo non poté non interessare gli accademici bizzarri e capricciosi della Val di Blelio. Inoltre le allegorie antropomorfe di Arcimboldo raffiguravano ortaggi, frutti, varietà vegetali, cesti, catini, vasi che potevano essere oggetto di studi per quanti, come sarà per lo stesso Caravaggio si avvicineranno alla raffigurazione naturalistica ( Silvia Paino-Pagden, Arcimboldo artista milanese tra Leonardo e Caravaggio, Mostra, Milano, 2011 ) .
                                                                               

  

                                                                               
Giuseppe Arcimboldo, L'ortolano, Museo Civico di Cremona
La stessa immagine rovesciata




























A voler completare il discorso sulle possibili influenze sul giovane Caravaggio non bisogna dimenticare la conoscenza dei Sacri Monti, di quelle città artificialmente costruite per rappresentare una calpestabile Gerusalemme, dove erano costruiti a grandezza naturale edifici immaginari di quella che doveva essere la città ai tempi di Gesù, le cappelle, ognuna dedicate ad un momento della Via Crucis ( in realtà la storia cristiana è più ampia e a Varallo parte da Adamo ed Eva, i progenitori, ed arriva al Santo Sepolcro. Le cappelle vennero fatte costruire da Bernardino Camaini, un frate francescano che dopo il viaggio a Gerusalemme volle ricreare i luoghi santi nei Sacri Monti. Il più famoso, meglio conservato e più ricco è il Sacro Monte di Varallo in provincia di Vercelli ai confini fra Piemonte e Lombardia che risale al XV secolo e presenta 45 cappelle e ben 800 statue. La caratteristica di un Sacro Monte è quella di organizzare in uno spazio scenico statico la storia sacra fondendo pittura, architettura, scultura, costumistica, luministica ( le cappelle sono disposte secondo un sapiente e funzionale uso della luce naturale ). Inoltre i personaggi sono a grandezza naturale e sono atteggiati con modalità gestuali e corporee provenienti della cultura teatrale del tempo. Fra i molti artisti, oltre all'architetto Galeazzo Alessi, autore degli edifici, vi hanno partecipato Gaudenzio Ferrari, Tanzio da Varallo, il caravaggino Fermo Stella, il Morazzone, Bernardino Lanini ed altri. Alla fine degli anni'80 erano già state realizzate una ventina di cappelle, i palazzi porticati, la Piazza e la Scala Santa. Per un pittore studiare lo spazio scenico delle cappelle e dei personaggi-statue vestiti ed atteggiati non era un fatto secondario, ma rappresentava un'esperienza unica, quella di prendere contatto, dall'interno della sua raffigurazione, con la storia sacra. Caravaggio che doveva aver conosciuto a Roma Tanzio da Varallo quando vi si recò per il Giubileo indetto da Clemente VIII aveva certamente un'idea precisa di come erano ambientate e popolate le cappelle del Sacro Monte. Forse vi era stato già col nonno da Caravaggio quando stava con lui: si trattava innanzitutto di un pellegrinaggio devozionale, un luogo dove si andava a ri-percorrere lo spazio della vita di Cristo. Ma anche l'aspetto didattico e artistico avevano per i giovani, specialmente se di talento, una loro importanza. Naturalmente va anche considerato il fatto che si trattava di una perfetta rappresentazione dello spirito controriformistico perché era  difficile una deviazione, anche minima, dall'ordine figurativo pre-disposto secondo quelle che potevano essere le indicazioni di un Paleotti per le immagini sacre. Ma quello che era importante, per un giovane pittore, era il materiale immaginario sacro che quelle capppelle fornivano, basato su ricostruzioni che venivano da relazioni di viaggio in Palestina, descrizioni, vangeli apocrifi e dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varazze che già sceneggiava quelle figurazioni in tanti atonomi quadri devozionali ( Giovanni Testori, La realtà della pittura, Milano, 1995; AA.VV. Tanzio da Varallo. Realismo, forme e contemplazione in un pittore del Seicento, Milano, Motta, 2000. ).



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