mercoledì 15 marzo 2017

Il Primo Tempo: Milano e Venezia : la bottega, gli occhi, la fuga




                                         Il primo tempo

                                                                  Milano e Venezia

              Fra ortodossia religiosa, repressione, vita di bottega e possibili fughe                         trasgressive fra gli accademici cultori di Bacco, la malavita locale e                                                      un ipotetico viaggio a Venezia.



            Il 25 settembre del 1589 Michelangelo Merisi è a Caravaggio. C'è da vendere un lascito paterno del quale la madre Lucia possiede i diritti di sfruttamento e vendita; l'appezzamento di terreno, situato nella campagna coltivata ad orti e vigneti, può essere venduto tramite l'autorizzazione della madre e riscattato a volontà del venditore. Il pittore ha già passato i quattro anni stabiliti dal contratto di apprendistato nella bottega del Peterzano; forse ancora collabora da un anno come pittore, in ogni caso può rendersi indipendente. La vendita probabilmente è dovuta ad una necessità di liquidi per poter organizzare uno studio nella casa milanese dove va ad abitare in S. Vito in Pasquirolo. Caravaggio dichiara di avere 18 anni, quindi per le leggi del tempo è ancora minorenne ed ha bisogno di un tutoraggio, che viene applicato a garanzia dalla madre Lucia. La questione dei terreni paterni e materni e della loro vendita non doveva essere tanto specchiata e semplice: c'erano i figli di primo letto di Fermo, c'erano i fratelli di Michelangelo, tutti aventi diritto. Pertanto vi è da  credere che le cose fra fratelli non filassero proprio lisce lisce, nel senso che potevano esservi rivalità e gelosie anche accese, sebbene non possediamo documentazioni in merito ( ma lettere fra Merisi e i fratelli non si sono proprio conservate, qualora fossero esistite ). In ogni caso la vendita va a buon fine e non si ha notizia di strascichi. Michele ritorna a Milano. L'anno dopo la documentazione ci fa sapere che i fratelli hanno da pagare dei debiti e quindi sono necessarie nuove vendite ( 20/6; 3/7, con il fratello Giovan Battista ). Lo stesso anno il 29 ottobre, la madre malata, fa testamento e il 29 novembre muore a Caravaggio. E' possibile che dopo la morte della madre i contrasti fra fratelli siano aumentati e forse l'assenza di corrispondenza può essere motivata anche dal fatto che per litigi non si scrivevano ( i documenti in Cinotti, 1973 e in Macioce, 2010 ). L'11 maggio 1592 i fratelli più grandi, Michelangelo, Giovan Battista e Caterina, si spartiscono i beni lasciati dalla madre. A Michelangelo, il maggiore di età, che ha già ricevuto dell'89, spetta, per volontà testamentaria, la parte minore dei beni che il pittore provvede a vendere subito per averne dei liquidi da spendere ( Cinotti, 1973, p.32 ). Da questa data non c'è più altra documentazione che riguardi il pittore sino al noto episodio del ritrovamento del ferraiolo da parte di Caravaggio a Roma nel 1597 e della testimonianza del barbiere che dichiara nel luglio del 1597 di conoscerlo già da alcuni mesi ( dalla quaresima passata, cioè dal marzo del 1596 ed è possibile che fosse arrivato in città all'inizio dell'anno:Francesca Curti, Sugli esordi di Caravaggio a Roma. La bottega di Lorenzo Carli e il suo inventario, in AA. VV. Una vita dal Vero a cura di Lo Surdo, Verdi, Curti, Roma, 2010, pp. 65-76 ) : quindi dall'11 maggio del 1592 sino all'inizio del 1596 Caravaggio non è documentato né in Lombardia, né a Roma né altrove. Torneremo a parlare di questo spazio temporale vuoto. Ora guardiamo alla bottega e alla vita a Milano dal 1585 al 1589.

                Che cosa si insegnasse a bottega è testimoniato da Bernardino Campi nel Parer sopra la pittura del 1584 ( lo stesso anno in cui Michele inizia a lavorare dal Peterzano ). Sin dall'inizio del suo trattatello ( ed. mod. Einaudi, Torino, 1988 ) ( che può essere paragonato e integrato con quello  di Giovan Battista Armenini, De' Veri precetti della pittura , in seconda edizione del 1587, ), l'autore spiega che il giovane pittore deve iniziare copiando ( disegni e pitture ), che poi faccia di rilievo ( degli autori classici e moderni ), infine che studi partendo da modelli viventi. Finita questa fase il pittore deve usare dei modellini in cera ricavabili da modelli in gesso, di modo che se ne possano fare più di uno. I modellini andranno poi poste su di un'asse come una specie di teatrino di figurine, per poi trasferire il tutto ai cartoni sarà necessario servirsi della graticola ( è un ingegnoso sistema di trasposizione  figurativa che consiste che sistemare dei chiodini in prossimità delle figurine di cera di modo da creare dei quadratini tramite l'ausilio di fili che uniscono tanti piccoli spazi formando una quadrettatura o graticola, appunto ). Secondo l'Armerini, sembra che Michelangelo Buonarroti lavorasse secondo queste modalità di bottega quando iniziò la composizione del Giudizio Universale ( Alexander Ragazzi, Un episodio nella storia dei modelli plastici ausiliari. Il Parer sopra la pittura di Bernardi Campi, www.Accademia. edu. 2016, pp. 125-126 i modellini erano già stati usati da Piero della Francesca ). Non sappiamo se Peterzano usava i modellini, ma essendo una pratica di bottega, ciò era del tutto plausibile. Quello che qui interessa è l'attività del copista. L'allievo deve saper ben copiare i maestri, i disegni ( e dunque saper fare altri disegni ) e le pitture. Al di là di autentiche irritanti bufale gonfiate dai mass media sui famosi Cento (? ) disegni che sarebbero di Michelangelo Merisi da Caravaggio conservati nel Castello Sforzesco di Milano, Gabinetto dei disegni, mischiati ad altri del Fondo Peterzano e che invece sono di copisti cinque-seicenteschi ( ma indirettamente si dimostra appunto come fosse diffusa l'arte della copiatura grafica ) ( E-Book Adriana Conconi, Maurizio Belardinelli Curuz, Giovane Caravaggio. Le cento opere ritrovate. La scoperta che rivoluzione il sistema Merisi,  2012. La sentenza del maggio del 2013 condannava gli autori per diffamazione vedendo la vittoria del Comune di Milano e della Direzione del Gabinetto dei Disegni del Castello Sforzesco di Milano, Aldo Masoero, Il giornale dell'arte, com, 24 maggio 2016. AA.VV. Simone Peterzano e i disegni del Castello Sforzesco, a c. di Francesca Rossi, Milano Silvana, 2013 ), occorre arrendersi all'evidenza che non esiste nessun disegno sicuro realizzato da Caravaggio. Mancando un disegno originario firmato o sicuramente attribuibile non è possibile fare raffronti e paragoni, pertanto al momento non si sa se Caravaggio disegnasse o meno. Certo però che aveva disegnato. La bottega era una scuola d'arte e il Peterzano era un maestro severo e la pratica di bottega prevedeva il disegno come priorità. E' addirittura possibile che proprio questa pratica così rigorosa del disegno imposta dal maestro ai suoi allievi avesse fatto disamorare il Merisi dall'applicazione sistematica del disegno per la composizione artistica e gli avesse fatto preferire la tecnica del grafito sull'imprimitura della tela ancora fresca di preparazione fatta con la punta di legno del pennello oppure attraverso l'uso del pennello stesso direttamente sulla tela. In ogni caso le radiografie mostrano l'uso frequente di incisioni, ad esempio, sono state rinvenute nella Resurrezione di Lazzaro e nel Sacrificio di Isacco. Un possibile disegno del Caravaggio a penna, bistro, acquarellato, è stato identificato in quello con la Vocazione di San Matteo, conservato agli Uffizi di stile lombardo-veneto, che Longhi credeva essere una mistificazione giorgionesca di Federico Zuccari e che altri attribuiscono a Claude Vignon, Maurizio Marini, invece lo ritiene un unicum caravaggesco ( Maurizio Marini, Disegnato dal Caravaggio, in Quadri e sculture, 29, 1998, pp. 41-44. ). A proposito della Vocazione di San Matteo, vi è un altro interessante disegno nel Museo di Capodimonte a Napoli.
Come ha scritto il Moir, per composizioni ampie, con più figure, non solo era necessario l'ausilio del disegno, ma proprio un disegno preparatorio era esplicitamente richiesto dal committente per verificare che la commissione era stata compresa e abbozzata secondo quanto richiesto ( A. Moir, Drawings after Caravaggio, in The Art Quarterly, xxxv,2, pp. 128-129 ). Il Caravaggio doveva aver preso visione della pratica presso la scuola del Peterzano per grandi composizioni come nella Certosa di Garignano. Il disegno di Capodimonte è una copia della Vocazione di San Matteo di Caravaggio dipinta nella tela di sinistra della  cappella Contarelli a S. Luigi dei Francesi a Roma ed è stato attribuito tradizionalmente al pittore napoletano di origine greca Belisario Corenzio. Si ritiene che Belisario, giunto a Roma per il Giubileo, nel 1600, avesse copiato la Vocazione allora esposta. Ma lo studio di Pietro Caiazza, tenderebbe a dimostrare che si tratti di un disegno elaborato nel quasi accessibile studio di Caravaggio a Roma. E' dunque possibile che in talune circostante il Merisi abbia avuto necessità di elaborare dei disegni che servivano anche per studiare delle varianti rispetto al risultato finale, come appunto dimostrerebbe il disegno di Napoli ( Pietro Caiazza, News Art.it/un disegno originale di Caravaggio.htl ).  

Belisario Corenzio? Vocazione di S. Matteo di Caravaggio c. 1600, Napoli, Museo di Capodimonte 

Di questo disegno e dell'altro degli Uffizi torneremo a parlare a proposito della Vocazione di San Matteo. Ora torniamo alla vita di bottega.

                  La bottega non è solo il luogo dove giovani imparano l'arte, è anche il luogo degli aiuti del maestro. Questi si serve dei giovani e ne mette in mostra i più ubbidenti e capaci perché è motivo di vanto e di distinzione per la bottega, che tanto è più ricca di talenti e richiesta tanto più riesce ad attirare altri giovani. Nella bottega il magister è quello che dirige, divide, organizza il lavoro degli aiutanti-allievi, non importano i singoli giovani, né contano come insieme, conta essenzialmente solo il magister  è solo lui che mette la firma, che riceve la committenza e che è ritenuto l'unico autore dell'opera indipendentemente dai collaboratori. Il maestro può cambiare e modificare disegni e figurazioni, può lasciar fare intere figure e riservarsi una sola piccola parte, in tutti i casi il merito e l'autenticità dell'opera è solo riferibile al maestro. Sulle botteghe rinascimentali di Milano ha scritto un saggio Janice Shell ( Janice Shell, Pittori in bottega. Milano nel Rinascimento, Torino, Alemandi 1995 ) al quale rimandiamo per informazioni dettagliate sull'insegnamento e le attività delle borreghe milanesi del Rinascimento. Qui basti dire che i giovani aiuti-allievi dovevano familiarizzare con le tecniche, dall'affresco al dipinto su tavola a quello su tela, dal paesaggio alla prospettiva, allo studio dei lumi e delle ombre, dallo studio del rilievo a quello dell'anatomia, dalla decorazione alle grottesche. Un giovane doveva essere dunque completo nella sua preparazione di modo da crearsi un curriculum spendibile una volta conquistata l'autonomia ed entrato nel mondo della professione e del mercato. Una bottega molto attiva, come quella di Simone Peterzano, era in grado di accettare e gestire più di una commissione contemporaneamente e sviluppare anche attività diverse, occuparsi dei grandi affreschi, come dei dipinti da cavalletto, di ritrattistica privata, di pale d'altare per cappelle di facoltosi committenti all'interno dello spazio sacro, come ad esempio in S. Fedele o in S. Maurizio a Milano.

                 In una bottega milanese non potevano mancare opere di Leonardo come il Trattato della pittura, copie di suoi disegnima di certo anche strumentazioni tecniche che Leonardo stesso aveva inventato e accuratamente disegnato. Parliamo soprattutto dell'uso degli specchi che in seguito verranno adottati anche da Caravaggio. Nel campo dell'applicazione artistica e della prospettiva, già Brunelleschi aveva realizzato una scatola che conteneva un cartone dipinto disposto a rovescio che si poteva osservare attraverso un foro evidenziando, rimpicciolito, il Battistero di Firenze; cento anni più tardi, l'iconologo Cesare Ripa aveva perfezionato la scatola con l'ausilio di un secondo specchio. Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci avevano visto importanti applicazioni pratiche degli specchi nel campo del disegno e della prospettiva. Leonardo, nel 1515, in un foglio del  Codice Atlantico parla di una scatola o camera obscura munita di un occhio ( oculus artificialis ) a lente variabile capace di catturare un'immagine e di rifletterla capovolta ( perfezionata in seguito da Daniele Barbaro e soprattutto da Giova Battista della Porta nel suo Magia Naturalis ). Leonardo evidenzia l'importanza che ha l'uso degli specchi per la pittura: " Tu vedi uno specchio piano dimostrar cose che paiono rilevate, e la pittura fa il medesimo. La pittura ha una sola superficie, e il specchio è il medesimo...Tu pittore farai le pitture tue simili a quelle di tale specchio, quando è veduto da un solo occhio" . Nei Sei libri dell'ombra e della luce Leonardo raccolse centinaia di disegni che evidenziano gli effetti, in un'immagine raffigurata, della luce e dell'ombra e in un altro disegno del Codice Atlantico, fol. 1 mostra una macchina per disegnare in prospettiva o prospettografo che consiste in un vetro cui è fissato un foglio posto in verticale fra l'oggetto da ritrarre e uno schermo con un foro centrale. Il disegnatore guarda con l'occhio dentro il foro e riproduce l'oggetto "in posa". Circa quarant'anni dopo Durer riprodusse un altro prospettografo in  cui un operatore in questo modo riproduceva un liuto, ma si trattava di una variante di un'invenzione di Leonardo ( sull'uso di specchi e strumenti leonardeschi nelle botteghe, cfr. Ettore Camesasca, Artisti in bottega, Milano, Feltrinelli, 1966, pp.321-325. ).

Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, fol,1, Prospettografo, Biblioteca Ambrosiana, Milano

Roberta Lapucci si è interessata delle conoscenze di ottica e dell'uso degli specchi in pittura che Caravaggio avrebbe potuto trarre dall'ambiente artistico lombardo-veneto e dall'opera del napoletano Della Porta, esperienze pratiche che venivano comunemente usate nella bottega d'arte ( Roberta Lapucci, Caravaggio e l' ottica. Aggiornamenti e riflessioni in AA.VV Caravaggio e l'Europa a cura di Luigi Spezzaferro, Silvana, Milano, 2006, pp. 59-70 ). Nel 1548, nel suo Dialogo di pittura, Paolo Pino chiariva che anche la pittura, al pari della scultura poteva avere un aspetto tridimensionale descrivendo alcuni dipinti di Giorgione con figure più volte ritratte nello stesso specchio, come nel S.Giorgio di ubicazione ignota ( Lapucci, 59 ) . Ma si può indicare anche la Cortigiana e la Vanitas di Tiziano e il Triplice ritratto di Orefice di Lorenzo Lotto. Ma soprattutto il Ritratto di Gaston Foix di Girolamo Savoldo che si rifà ad un perduto olio di Giorgione, in cui il personaggio è ritratto tre volte ( di fronte, di tergo e di lato ), per dimostrare le possibilità della pittura, arte superiore alle altre. 


Lorenzo Lotto, Triplice ritratto di orefice,1525-35, olio su tela,  Kunsthistorisches Museum, Wien

Girolamo Savoldo, Ritratto di Gaston Foix, 1529, Musée du louvre, Paris


Grazie all'uso degli specchi in questo ritratto si trovano scorci e controscorci, proiezioni, contrazioni, uso di luci riflesse e disposizione di ombre ( Lapucci, 60 ). L'ipotesi della Lapucci consiste nel ritenere che Caravaggio, che avrebbe potuto conoscere il Della Porta tramite il conterraneo Giovan Battista Marino suo amico in casa Crescenzi a Roma ( ma l'ipotesi che lo avesse conosciuto anche prima a Milano non è da scartare e comunque poteva aver letto il De Magia naturalis e fatto esperienze nell'uso pittorico degli specchi a bottega con Peterzano ), non si serviva del disegno perché poteva dipingere direttamente già l'immagine proiettata sulla parete. Un effetto di distorsione dell'immagine per l'uso dello specchio è nel Fruttaiolo della Galleria Borghese a causa di un eccessivo allungamento del collo dovuto alla difficoltà di raddrizzare l'immagine proiettata come dinmostrato da Susan Grundy. Scrive il Bellori, con intento certo denigratorio, ma forse con conoscenza delle modalità reali di lavorare del Merisi : " Divolgando che non sapeva uscir fuor delle cantine e che, povero d'invenzione e di disegno, senza decoro e senz'arte, coloriva tutte le sue figure ad un lume sopra un piano senza digradarle" ( Gian Pietro Bellori, Le vite degli scultori, pittori et architetti moderni, Roma 1672, ed. 1976, p. 205 ) Una pittura solo da studio, segreta e con una sola fonte luminosa che cambiava nel corso della giornata con effetti sul modello da ritrarre: ciò è visibile nel volto del Ragazzo morso da un ramarro della Collezione Roberto Longhi di Firenze: il lato destro del volto appunto è più grande, più lungo e più buio, mentre il sinistro è più piccolo, più luminoso e ruotato verso lo spettatore ( Lapucci, 62 ). Era necessaria, per la correzione dell'immagine che si modificava una rifocalizzazione che poteva avvenire proiettando anche più parti di realtà.

Caravaggio, Ragazzo morso da un ramarro, Fondazione Longhi, Firenze
L'importante studio di Hochney sull'uso degli specchi e della camera scura nei pittori, di cui torneremo a parlare propone varie osservazioni sui possibili sistemi di rifocalizzazione usate per correggere gli errori che si venivano a verificare durante la composizione pittorica. A Milano l'interesse per l'ottica era piuttosto vivo grazie all'interessamento del cardinale Sfrondati, il quale, sviluppando talune considerazioni affrontate dal Concilio di Trento aveva parlato di un" far vedere il vero" , di privilegiare, dunque, il senso della vista. Caravaggio nella bottega del Peterzano e negli incontri che si facevano fra artisti, come afferma la Lapucci era in contatto con esponenti dell'intellighenzia meneghina, in particolare con Gian Paolo Lomazzo amico personale del Peterzano. Lomazzo, pittore e trattatista, che si era molto occupato dell'uso dei lumi e delle proiezioni nel suo Trattato era in contatto a sua volta con Girolamo Cardano e Giovan Battista Benedetti, matematico piemontese, amico a sua volta di Galileo e del matematico Guidobaldo Bourbon Del Monte, fratello di Francesco Maria Del Monte di Santa Maria, importante committente di Caravaggio, alchimista e collezionista di vetri e specchi che lui stesso era in grado di fabbricare. Nell'inventario delle cose del Caravaggio del 1605, risultano in possesso del pittore uno specchio convesso o a scudo e ben 11 pezzi di vetro, che dovevano essere delle lenti. Inoltre, sappiamo che il pittore era stato denunciato dalla sua padrona di casa in quanto aveva praticato un foro sul soffitto per lasciar penetrare dall'alto un fascio di luce, sebbene a questa data il pittore doveva essersi discostato dalle concezioni di Della Porta, per accostarsi, come afferma la Lapucci, a circoli pre-libertini vicini a Galileo ( Lapucci, p. 63 e p. 64 ). Centro produttore e diffusore di specchi era Venezia, all'isola di Murano; da Venezia partivano le commissioni di vetrerie per le botteghe, mancano, però, studi specifici sull'attività di acquisto dei materiali da lavoro e studio delle botteghe d'arte a Milano e a Venezia. Da quanto detto si può dedurne che il pittore nella bottega del Peterzano aveva a disposizione anche questa importante risorsa che poi, come si vedrà, gli tornerà particolarmente utile.

               Abbiam detto che Caravaggio conosceva Gian Paolo Lomazzo e se ne può dedurne che forse frequentava, magari segretamente, l' Accademia dei Facchini della Val di Blelio di cui il Lomazzo era abate ( si ritrasse anche in questo modo scherzoso, in un noto autoritratto la cui influenza sul giovane pittore si può vedere nel cosiddetto Bacchino malato della Galleria Borghese ).

Giovan Paolo Lomazzo, Autoritratto come Abate dell'Accademia dei Facchini della Val di Brelio, Milano, Brera



Come è noto il nume tutelare dell'Accademia era Bacco e gli accademici si rifacevano ad una ipotizzata Tomba di Bacco che altro non era che il Mausoleo di Costantina, figlia di Costantino I, dove i bassorilievi e un sarcofago, oggi ai Musei Vaticani, sono ricchi di temi legati alla coltivazione della vite e dunque al culto bacchico ( da cui il nome di Accademia dei Vignaioli ) . L'Accademia guidata da Lomazzo ( Compar Zarvagna ), aveva un carattere burlesco, grottesco e comico e ne facevano fede i Rabish del pittore, di cui si è detto sopra e le opere caricaturali di Bernardino Luini; ma vi partecipavano anche musici, attori ( la Compagnia dei Gelosi ), poeti e artisti. Fra questi anche Ottavio Semino, dal carattere bizzarro, rissoso, scontroso, non di rado violento sino alle estreme conseguenze, che presenta alcuni tratti in comune con l'esistenza border line del Caravaggio. In accademia si professavano dottrine proibite dalla Chiesa come quelle caballistiche o della Magia Naturale di Avicenna. E' chiaro che una frequenza di questo tipo, ipotizzabile per la conoscenza del Lomazzo, comporta una frequentazione alternativa e marginale di Caravaggio rispetto a quella rigidamente ortodossa in seno alla bottega del Peterzano, tutta orientata a seguire, certo anche per pura convenienza commerciale le indicazioni di Carlo Borromeo e di Gabriele Paleotti, imbevuti di retorica controriformistica, circa la composizione delle immagini sacre e il comportamento da tenere in genere nelle realizzazioni figurative. In Accademia si respirava tutta un'altra aria, un'aria trasgressiva e scanzonata in cui aveva largo spazio il grottesco e il comico, incarnato, questo dai Comici Gelosi e dalle loro commedie all'improvviso che, forse, Caravaggio aveva visto. Improvvisazione, apparente casualità, carattere spontaneo e asistematico delle rappresentazioni dei Comici erano visti come l'operazione immediata della natura senza il concorso dell'arte ( Elena Tamburini, I comici gelosi e l'Accademia della Val di Blenio, in Biblioteca Teatrale.Scritti e testimonianze in omore di Ferruccio Marotti, 2011, 97-98, pp. 175-195 ). Sebbene si tratti di operazioni culturali non propriamente trasgressive in quanto alla fine associate alla cultura dominante e alle concezioni teoriche dell'Ut pictura poesis, è importante notare come quel che si faceva in Accademia rappresentava una circolazione, poco consueta, di idee fra cultura alta dei letterati e bassa dei pittori, degli artigiani, dei comici e dei musici. Come ha sottolineato Elena Tamburini, nelle scelte dell'Accademia non mancano riferimenti al delirio bacchico, all'attività dominata dal furor platonico, il furor poeticus in preda all'ebbrezza. La cifra delle espressioni compositivi è la casualità e l'improvviso anche in pittura ( è il caso di Aurelio Luini, che dipinge in preda al suo furor creativo, o del pittore Paolo Camillo Landriani, pittore all'improvviso ), che comporta l'eliminazione del disegno preparatorio fondamentale nella cultura pittorica fiorentina. Il rapporto fra artisti, artigiani, poeti, comici in  questa Accademia è molto stretto: un'attrice letterata come Isabella Andreini intratteneva rapporti intellettuali con i principali rappresentanti dell'Accademia ed era considerata un importante punto di riferimento. I Rabisch del Lomazzo, sono testimonianza di questi rapporti che porta i bizzarri accademici poeti, pittori e comici a condividere nella strampalata lingua mista di vari dialetti ( una sorta di Grammelot come quello portato al successo da Dario Fo ). Il rapporto dell'Accademia con la Commedia dell'Arte è molto fecondo e le incisioni che illustrano le scene e i personaggi dell'Arte ( almeno alcuni di essi ) , noti come Recueil Fossard , fossero in realtà attribuibili all'incisore milanese  Ambrogio Brambilla, un accademico noto col nome di compà Borgnin ( M.A.Katritzki, Italians Comedieans in Renaissance Prints, in " Print Collector"1987,4, pp.236-254 e si veda Ines Aliverti, Per una iconografia della Commedia dell'Arte, Teatro e Storia, 1989, I, pp. 77-83 ).  Per testimonianza del Lomazzo questo Brambilla era stato inventore e gran cancelliere dell'Accademia, aveva vissuto diversi anni a Roma, dove aveva avuto guai giudiziari e si era impegnato a Milano per la sua buona riuscita dell'Accademia. Un certo senso ironico e comico che si avverte in taluni dipinti di Caravaggio, come I Bari, per i quali si è fatto riferimento alla Commedia dell'Arte, potrebbero avere, in talune incisioni del Brambilla, qualche riferimento indiretto.

              Sappiamo che i pittori dell'Accademia non ebbero commissioni nell'ambito cittadino dopo i duri interventi di Carlo Borromeo. Nei Rabisch di Gian Paolo Lomazzo il Lamento della Pittura dedicato al pittore bolognese Camillo Procaccini ( in realtà parmigiano, anche se lavorò nella bottega del padre a Bologna per diverso tempo ) , chiaramente è un lamento per la carenza di lavoro per gli accademici ( Tamburini, 193, Lomazzo ed. Isella, pp. 130-131 ). L'arcivescovo Carlo Borromeo, dopo la peste, intesa come un castigo divino, si impegno a sviluppare forti censure e limitazioni, Limitò il carnevale e le rappresentazioni sacre e profane, si scagliò contro l'uso pittorico delle grottesche e delle trasgressioni manieristiche intendendo le figure ridicole e caricaturali che venivano a svilupparsi come manifestazioni del demoniaco, La rappresentazione fortemente erotica e sensuale dell'immaginario mitologico tardo manierista andava combattuto e fortemente censurato sino all'epurazione. La nuova arte non poteva non essere didattica e impregnata di una coerente religiosità devozionale. Il popolo non doveva essere distratto o sviato o lusingato, ma istruito a seguire, anche attraverso le immagini le vie della vera spiritualità che dopo il buio riformistico luterano trovasse una nuova luce. Gian Paolo Lomazzo di fronte alle imposizioni del Borromeo dovette muoversi su un doppio livello operativo: da una parte mostrare un'apparente adesione alle concezioni dettate dall'arcivescovo e dal Paleotti, dall'altro, in segreto, sviluppare un'adesione alla trasgressione burlesca e grottesca dell'accademia bacchica ( l'autoritratto del Lomazzo col suo sorriso furbesco, il cappello contadinesco a larghe tese coronato di alloro e pampini e la presenza del Tirso cuspidato avvolto di edera come simbolo fallico, sono segni nascosti del culto di Bacco-Dioniso ). Era l'unico modo per non dover rinunciare al lavoro e alla propria natura di uomo, artista e studioso. Erano dunque i Rabisch, le rime ridicole e burlesche e soprattutto l'attività di ricerca caricaturale e fisiognomica, che gli permisero di poter continuare, in una rappresentazione di nicchia, marginale, i suoi interessi profani. L'interesse per lo studio degli affetti, dei temperamenti, delle emozioni attraverso le deformazioni, le alterazioni, le espressioni dell'animo umano svolte in molti disegni e dipinti sono molto importanti per la formazione, diciamo così nascosta, del giovane Caravaggio. Guardiamo, ad esempio, un interessante olio di Lomazzo ( a lui attribuito ), Tre uomini ed una donna che tiene in braccio un gatto, battuto da Sotheby's ( 26 gennaio 2012 ) a New York, mostra il genere della pittura ridicola attraverso espressioni differenti di riso. Il Lomazzo parla di questo tipo di pittura ridicola in un passo del suo Trattato a proposito di un pittore quattrocentesco milanese, Michelino da Besozzo.




Gian Paolo Lomazzo, Tre uomini e una donna con  un gatto, provenienza Lise Haas, Wien ( Sotheby's, New York, ( Litt. Was einmal war: Handbuch der enteigneten Kunstsammlungen Wiens, Vienna 2003, p. 93, inv. no). 7

            Nel suo racconto di ciò che fece il pittore Gian Paolo Lomazzo ricorda che realizzò un dipinto con tre uomini e una donna che tiene in braccio un gatto che si lasciavano andare a grasse risate in modalità differenti, risate nate da un lascivo godimento ( nella'copia'del Lomazzo si vedrebbe solo la parte superiore, mentre quella inferiore originale sarebbe stata troppo oscena per riprodurla ) degli uomini e delle donne. Questo dipinto era diventato così famoso che veniva copiato ancora ai tempi del Lomazzo, magari in segreto, negli studi e nelle botteghe e mostrato nella sola parte superiore, come vediamo qui sopra. Questo riso sfrenato, complice e osceno era la cifra stilistica di non poche elaborazioni grafiche e poetiche dell'Accademia che aveva piacere nel mostrare le rozze espressioni compiaciute dei facchini e contadini valligiani che venivano nella grande città attirati dalla varietà di cose e persone che essa poteva offrire. E ci si chiede se il riso dell' Amore Vincitore di Caravaggio non nasconda anche questo aspetto del godimento ( anche erotico ) e del piacere smodato del riso ( presente anche nel S. Giovannino dei Musei Capitolini, del 1602 ) e ancora se il lieve rossore sulle guance non derivi dalla pratica dei comici dell'arte Gelosi che agivano presso l'Accademia con loro commedie in cui le attrici e gli attori, nella loro recitazione all'improvviso erano in grado di simulare l'arrossamento del viso per fingere l'imbarazzo dell'amato davanti all'amata e viceversa ( su questo aspetto dei comici all'improvviso Tamburini, pp. 175-76, ).  





Caravaggio, S. Giovannino, 1602, olio su tela, ( Dettaglio ) Musei Capitolini, Roma.




               Nella Milano riformata di Carlo Borromeo dunque esistevano queste nascoste trasgressioni che si servivano di linguaggi segreti, di codificazioni simboliche, per sfuggire alla censura. I compari si riunivano in luoghi spesso legati alla mescita del vino, nelle osterie di Milano, dove potevano scambiarsi poesie, rabisch, schizzi, caricature e dove potevano anche svolgersi burle e rappresentazioni all'improvviso e bevute a garganella grazie ad una specie di recipiente a forma di tubo che veniva riempito di vino sino al colmo e infilato  direttamente in bocca, detto in dialetto galigliobgn. Luoghi della marginalità in quartieri malfamati come S. Vito in Pasquirolo. Il Lomazzo rappresenta questi luoghi cogliendo la caricatura dei facchini blienesi scesi dal nord che si beano del cibo e del vino e mostrando attenzione agli aspetti fisiognomici di pellegrini ignoranti e crapuloni capitati in una specie di Bengodi ( se ne vedano le illustrazioni in Rabisch. Il grottesco nell'arte del Cinquecento, Milano, Skira, 1998 ). Il controllo del Borromeo si stava facendo ossessionante. Nelle Istructiones la libertà lasciata all'artista, che volesse lavorare in un cantiere posto in un luogo sacro o volesse ricevere commissioni di pitture sacre, che era poi il mezzo di guadagno più sicuro e la richiesta figurativa più comune, è vicina al grado zero, l'arte non può essere diversa, nemmeno minimamente da ciò che è stato concordato dai padri conciliari. Leggiamo al Cap. XVII Quae in imaginibus sacris cavenda, quae rursus servanda sunt." Non si raffigurerà in chiesa o altrove un'immagine sacra che contenga un falso dogma, oppure che offra agli ignoranti un'occasione di pericoloso errore, che sia contraria alle sacre scritture o alla tradizione della Chiesa...Inoltre, nel dipingere o scolpire sacre immagini, come non si dovrà rappresentare nulla di falso, di incerto o apocrifo, di superstizioso e di insolito, così si eviterà rigorosamente tutto ciò che sia profano, turpe o osceno, disonesto e procace; e analogamente tutto ciò che sia stravagante, che non stimoli gli uomini alla pietà, o che possa offendere l'animo e l'occhio dei fedeli. Inoltre, per quanto nella rappresentazione di un santo si debba ricercare, si avrà cura di non riprodurre a bella posta l'effigie di un alto uomo vivente o morto . Non dovranno trovar posto in chiesa o in altro luogo sacro immagini di bestia da soma, di cani, di pesci o di altri animali bruti, a meno che la rappresentazione della storia sacra, secondo la consuetudine della madre Chiesa non lo richieda specificamente" ( Carlo Borromeo, Istructionem Fabricae et Suppelletilis ecclesiasticae. Libri II, 1577, tr. it. di Zelia Grosselli, Università Cattolica, Milano, Cesano Maderno, 1983, pp. 216+232 l'originale latino è consultabile anche su www. memofonte.it/home/file/scritti_Borromeo.Pdf si veda anche Maurizio Vitta, La questione delle immagini nelle Istructiones di San Carlo Borromeo, ed Liberia Vaticana, Vaticano, 2000, pp. 397-404 ).

             Nel dipingere i santi, poi sarà necessario che il pittore provveda a fornire indicazioni simboliche che permettano di riconoscere la santità, come può essere l'aureola in forma di scudo rotondo, la mitra e il pastorale per indicare i vescovi, le palme fra le mani dei martiri, Occorrerà inoltre badare che l'aureola sia posto solo a personaggi canonizzati e che a Cristo spetti come attributo simbolico la croce. I "parergi" o ornamenti che vengono posti di regola dai pittori alle storie raffigurate devono essere rispettosi del luogo e della storia rappresentata, non si faranno quindi mascheroni, o uccelli o campi verdi o mare, insomma cose possano indurre al diletto. Insomma quei "falsi dogmi" ( dal neopaganesimo, all'ermetismo, alla magia naturale, alla cabala ) e quelle bizzarrie, delle quali gli accademici cultori di Bacco si deliziavano, erano cose del tutto estranee non solo alla pittura sacra, ma alla pittura in genere. E quegli stessi pittori che si rallegravano insieme in segreto in bettole ed osterie, se volevano lavorare erano costretti a fingere un allineamento con i principi della Controriforma. Abbiamo visto cosa accadde ad Aurelio Luini costretto all'inattività dopo un Breve del Borromeo e il Lomazzo dovette certamente adeguarsi nelle sue grandi decorazioni, come nella Cappella Foppa a S. Marco a Milano. Tuttavia venne in aiuto agli artisti dell'Accademia un secondo Borromeo, imparentato tanto con la famiglia di ecclesiastici quanto con i nobili Visconti, Pirro I Visconti Borromeo era membro dell'Accademia della Valle di Blelio e aveva come consulente culturale proprio Gian Paolo Lomazzo. Pirro difese e protesse gli accademici che parteciparono, in qualità di artisti alla realizzazione della sua villa e del Ninfeo di Lainate ( Alessandro Morandotti, Milano profana nell'età dei Borromeo, Electa, Milano, 2005 ) La residenza era affacciata su di un giardino " incantato ricco di acque e di vegetazione, dove tutto era predisposto per suscitare la meraviglia degli ospiti" ( Morandotti, p. 28 ). Il Ninfeo doveva contenere oggetti artistici, dipinti e statue, che avevano la funzione di suggestionare il visitatore, in particolare di affascinarlo con la varietà dei giochi d'acqua che potevano essere arricchiti di notte dalle luci delle fiaccole. La decorazione della villa e del Ninfeo appartiene ad accademici come Carlo Antonio e Giulio Cesare Procaccini o a Camillo Boccaccini, per la prima, all'estro di Martino Bassi, il secondo. Ricca la varietà sul soffitto del piano nobile della Villa delle grottesche e di soggetti profani, zoomorfi, mostruosi, mitologici con cornici in stucco e mascheroni. Si può dire che qui era possibile l'esatto contrario di ciò che Carlo Borromeo predicava: lo spazio profano di contro all'altro spazio, estraneo e oppositivo, che è quello sacro. Nel Ninfeo invece Martino aveva realizzato una imitazione delle meraviglie della natura con conchiglie e rocce gocciolanti, grotte e grottini, stalattiti e stalagmiti, mosaici, composizioni di pietre dure colorate ed altro. Insomma, ciò che i Lomazzo ed i suoi compari non riuscivano ad esprimere nei luoghi posti sotto l'autorità ecclesiastica, potevano in qualche modo esprimere in questo posto ameno dove, nel teatro di verzura e nel portico si saranno anche fatte riunioni e rappresentazioni o concerti musicali. Che Caravaggio potesse frequentare anche questo posto, così ricco di immaginario profano, è possibile stante la conoscenza e l'apprezzamento che il Lomazzo mostrava per il Peterzano, allineato e certo estraneo a questa Milano profana, che si guardava bene dal frequentarla, ma che forse non poteva impedire di farlo al suo inquieto allievo.

                 La documentazione non ha fornito ancora alcuna indicazione sicura su lavori milanesi del Caravaggio, si può pensare o che lavorasse solo in collaborazione durante l'apprendistato come aiuto del suo maestro con altri lavoranti-allievi o che lavorasse da solo e di nascosto dopo l'uscita dalla bottega del Peterzano o che non lavorasse proprio. Che pensasse, cioè, a bighellonare, che facesse quelle stranezze o "stravaganze" di cui parla il Mancini, che a mio avviso potrebbe anche essere un'indicazione di quella partecipazione segreta alle "stravaganze" degli accademici vignaioli adoratori di Bacco.

                  I luoghi della città erano oggetto dell'attenzione di Carlo Boromeo che vedeva nella piazza uno spazio di pericolosità e che quindi andava raccolta e dimensionata in senso prettamente cristiano. Nelle Istruzioni aveva raccomandato all'architetto dello spazio sacro sobrietà e semplicità, allontanando dal frequentatore della chiesa ogni possibile tentazione a sviare lo sguardo e il cuore da quelli che erano gli obblighi del cristiano: la preghiera, la sottomissione, il pentimento, l'unità con gli altri fedeli. La navata unica, l'allontanamento, dalle cappelle private di qualsiasi richiamo alla classicità profana nell'uso degli ordini canonici, salvo in qualche caso ove fossero necessari, il distacco della fonte battesimale dalla chiesa ( Lutero aveva sostituito l'altare con il fonte battesimale per sottolineare come il battesimo fosse l'unico atto di fede ), da costruire all'esterno come nelle costruzioni paleocristiane ( come a Firenze o a Roma ), la separazione netta fra navata e presbiterio con la costruzione di balaustre e cancellate, la realizzazione di confessionali-cabine necessari a celare il confessore, spingere alla riflessione e al pentimento e soprattutto ad evitare ogni tentazione ( le grate fra confessore e fedele erano forate con forature millimetriche ). Nelle strade e nelle piazze non potevano esserci i segni del sacro perché si sarebbero contaminati con quelli del profano: il sacro doveva stare solo nella chiesa, separato e protetto. Allo stesso modo, condannando e proibendo ogni forma di deviazione dall'ordine che deve seguire ogni buon fedele e quindi giochi, feste, carnevalate, buffonerie, concerti, giostre nei giorni dedicati al Signore e nelle feste comandate ( Giovan Battista Castiglioni, Sentimenti di San Carlo sugli spettacoli, Bergamo, 1759, p. 54, lettera di Carlo Borromeo del 22 febbraio 1579 e Editto di prohibitione di giostre e spettacoli nelle domeniche e feste del 7.3. 1579, Tiziana Mazzaglia, Saggio su Carlo Borromeo fra arte e teatro, 3 ottobre 2015, in www. lecanoedelweb.it/Carloborromeo-teatrante-e-artista/ ) aveva trovato modo di sfidare il pur seguito spettacolo profano contrastandolo con altre forme di spettacolo, come le grandi processioni, le recite collettive del rosario, le vie crucis. In questo modo la piazza e le strade erano direttamente investite dalle celebrazioni della liturgia e venivano così'purificate'. In questo passo leggiamo la lamentela del Borromeo per l'occupazione profana dello spazio intorno alla chiesa, ma allo stesso tempo della ricca varietà di spettacoli e divertimenti, dell'affollamento e di quella che l'arcivescovo valutava con indecorosa mancanza di rispetto: " Strepitavano quasi sulle porte della Chiesa, et intorno,tamburi,trombe,carrozze di concorso,gridi e tumulti di tornei, corriere,giostre,mascherate et altri simili spettacoli profani con pubblico e scandalosissimo disturbo. Oltre che disturbi et impedimenti così fatti, erano spesse volte nella piazza esterna della Chiesa, e le strade per dove passavano le processioni, e per dove anco noi andavamo alla Chiesa, di maniera che alle volte fummo in un certo senso impediti"( Editto 7/3/1579, Acta Ecclesia Medionalensis, coll. 1113-1116 ). L'architetto ufficiale di Carlo Borromeo, Pellegrino Tibaldi, non solo si occupa della disposizione dello spazio sacro secondo le istruzioni del cardinale, ma sotto sua indicazione interviene per una generale ristrutturazione dell'intero spazio urbano in senso cristiano con l'edificazione di numerose chiese e disposizione di strade in funzione religiosa e processionale ( Giorgio Simoncini, L'idea della città cristiana negli scritti di Pellegrino Tibaldi, in Arte Lombarda, 1990, 95-95,pp. 55-65 e A. Scotti, Architettura e spazi urbani nell'opera di Pellegrino Tibaldi, in idem, pp. 65-75 ). Nonostante questi provvedimenti la festa non è mai stata realmente soppressa e vi erano momenti festivi che non potevano essere evitati come i tornei organizzati per importanti visite di Stato e lo stesso carnevale, per quanto fortemente limitato, non poteva essere del tutto soppresso. Vi erano poi i molto frequentati Cameroni delle commedie ( uno si trovava in via Rastelli in casa dell'Ebreo Angelo Lucchese, altri erano a Porta Tosa e in Casa Arese ), visti da Borromeo come il fumo negli occhi, perché luoghi di corruzione e di vizio. Borromeo aveva pensato di contrastare il teatro profano con quello sacro, dando spazio alle rappresentazioni religiose, alla drammatizzazione della Settimana Santa in particolare ( La scena della gloria. Drammaturgia e spettacolo a Milano in età spagnola a c. di Annamaria Cascetta e Roberta Carpani, Milano, Vita e Pensiero, 1995 e AA.VV., S. Carlo e il suo tempo, Atti, maggio 1984, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1980 ). L'attraversamento lungo il tracciato di una ideale via sacra aveva la funzione di canalizzare sguardi ed attenzione dei fedeli, di farli attivamente partecipare, in senso quasi fisico, alla Passione di Cristo e in questo senso il Borromeo aveva ben appreso l'arte del teatro e la sua formidabile capacità comunicativa e la funzionalità scenografica degli spazi urbani. Al Borromeo interessava il controllo e la vigilanza sui fedeli, per questo non bastava allertare la polizia del Tribunale dell'Inquisizione per la denuncia di sospetti di eresia e stregoneria, ma era necessario di servirsi di un capillare controllo nelle parrocchie operato dai parroci ; lo stesso confessore che operava nel rinnovato confessionale doveva non limitarsi ad ascoltare i peccati e comminare le preghiere riparatrici, ma essere severo giudice in grado di rinviare il peccatore ad un suo superiore che poteva comminare pene più severe e soprattutto pubbliche che era un grave atto di esposizione della coscienza e dell'intimità di un peccatore  ( Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza, Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi,1996, pp. 282-371 ). E' chiaro che nella sua rigidità Carlo Borromeo non fosse propriamente ben accetto dalla popolazione, magari rispettato e temuto, ma non proprio amato, anche a causa del carattere chiuso, un po'misogino, rigido e uno aspetto non proprio gradevole, con il grande naso e la fronte stretta come lo mostrano vari ritratti come quello di Orazio Borgianni del 1610-12c basato su raffigurazioni più antiche.


Orazio Borgianni, San Carlo Borromeo, particolare, 1610, Museo dell' Hermitage, San Pietroburgo
             Da giovane Carlo non si era fatto catturare dalla vita mondana di Roma dove lo aveva chiamato lo zio, Giovanni Angelo Medici di Marigliano, poi papa col nome di Pio IV, anzi la disdegnava malgrado ricevesse di continuo inviti dagli ecclesiastici più importanti e ricchi della città eterna. In realtà si sentiva attratto da una vita rigorosa e ascetica, era nemico del bello e del corpo e nutriva sentimenti di avversione nei riguardi delle donne, non sopportava inviti e festini dove riteneva che i cardinali si lasciassero corrompere da donne disoneste. Preferiva una vita ritirata, con una tavola per letto, frequenti digiuni, intense letture e preghiere e notturne mortificazioni della carne con i flagelli che teneva in casa. Dopo un po' non venne chiamato più alle feste e considerato un mezzo pazzo che si era fatto incantare dai Teatini, un ordine monastico nato in seno al Concilio di Trento che si proponeva un rinnovamento morale e spirituale della Chiesa. In collaborazione con il papa decise di emanare un decreto nel 1560 in cui si imponeva ai vescovi di risiedere nella Diocesi e quindi gli si imponeva di rinunciare a viaggi, feste e divertimenti, causando, in questo modo molti malumori e risentimenti. Diventato vescovo di Milano e lasciata la Roma corrotta, Carlo pensò che a Milano doveva cambiare molte cose per ridare dignità al clero e alla Chiesa. Intervenne perciò decisamente con rigidi controlli e visite pastorali anche personali, limitando i divertimenti, la prostituzione, il gioco, le insubordinazioni degli ecclesiastici, l'arroganza dei nobili e della soldataglia spagnoli. A Milano la città era mal governata da un potere miope, distratto e impopolare. Inevitabile fu lo scontro con le autorità civili e politiche. Più benevolo fu il rapporto col popolo che aveva visto in lui un rinnovatore, un uomo di ferro, capace di tenere a bada le odiate autorità spagnole. Più duro fu però lo scontro dentro la Chiesa milanese, con gli ordini monastici, come con i canonici della Scala che si erano macchiati di delitti comuni e soprattutto con gli Umiliati che non avevano sopportato il personale controllo esercitato da Carlo a Santa Maria di Brera e si erano ribellati addirittura facendosi seguire da una scorta armata. La situazione precipitò: gli Umiliati assoldarono un killer, un certo Farina, un monaco ladro e alcolizzato, al quale diedero l'incarico di uccidere Carlo. Il Farina lo sorprese il chiesa mentre pregava. Gli sparò alla schiena un colpo di archibugio che lo colpì solo di striscio o giunse depotenziato o venne sparato male di fretta e senza mira. Si gridò al miracolo perché Carlo rimase illeso. Il Farina venne catturato, gli mozzarono la mano che aveva sparato e venne impiccato sulla pubblica piazza. Gli Umiliati vennero immediatamente sciolti dal papa. Dopo la peste che egli aveva visto come il flagello mandato da dio per punire i molti peccati della città corrotta e che egli aveva esorcizzato con grandi processioni e aiuto ai malati rischiando di persona il contagio, la svolta durissima e la trasformazione della città con la costruzione della chiesa circolare di S. Sebastiano e fece concludere al Tibaldi i lavori per S. Fedele che divenne l'edificio gesuitico da contrapporre al Gesù a Roma. Nel 1583 durante un viaggio di esplorazione pastorale nelle valli svizzere ai confini con l'Italia, fece perseguire eretici luterani e ben 161 streghe di cui 11 irriducibili che, rifiutatisi di abiurare vennero bruciate vive. Dopo aver visitato la Sacra Sindone a Torino ed essersi ritirato nel Sacro Monte di Varallo e aver tentato di recarsi ad Ascona dove si stava creando un pericoloso baluardo protestante, morì a 46 anni e venne sepolto, come aveva chiesto sotto il pavimento del Duomo: al funerale c'erano solo tre vescovi ma un'enorme popolo. Nel 1610 la Chiesa lo proclamò ufficialmente santo ( www. viaggiatoricheignorano.blogstop.it/ Carlo Borromeo/ il santo di ferro/21 settembre 2015. Sul Borromeo si veda per un equilibrato giudizio critico P. Biscottini Borri, Carlo e Federico. La luce dei Borromeo nella Milano spagnola, Milano, 2005. ).

              E' chiaro che in una situazione così asfittica per un ribelle come Caravaggio la vita dovesse essere alquanto difficile; egli forse trovava sfogo proprio con quei compagni stravaganti che parlavano un misto di dialetti lombardi e si ubriacavano nelle bettole intorno ai cantieri del Duomo zeppe di artigiani, di stranieri, popolati di prostitute, tagliaborse, ladri. Naturalmente non vi sono documentazioni di sorta e i biografi conoscevano pochissimo il periodo milanese di Michelangelo, tuttavia è possibile che il pittore seguisse questo itinerario alternativo. Le risse in questi luoghi dovevano essere all'ordine del giorno e della notte, complice anche il vino e il codice cavalleresco che prevedeva rispetti e precedenze spesso mancati dall'insolenza dei bravi spagnoli e dalle stesse teste calde di artigiani ed artisti. Soprattutto in città c'erano troppi vagabondi, persone senza mestiere, che si appoggiano a qualche gentiluomo in grado di proteggerli, che giravano armati sebbene fosse proibito, che frequentavano prostitute, bische e osterie. Malgrado per questa criminalità comune fosse riservata la galera, cioè la voga forzata sulle galee di Stato, le violenze non c'era modo di farle cessare: " ne la città ancora si commettono giorno e notte moltissimi robbamenti, violenze, assassini,homicidi et altri gravissimi delitti" ( Romano Canosa, Storia di Milano nell'età di Filippo II, Roma, Sapere, 1996, p. 170  )  Che anche Caravaggio finisse nella rete è possibile. Fatto sta che il Mancini accenna chiaramente ad un episodio violento che certamente conosceva ma che rimase misterioso e non chiarito nelle inquietanti note manoscritte aggiunte ad una copia della Vita di Caravaggio conservata alla Biblioteca Marciana di Venezia: " Fecer delitto. Puttana scherro e gentilhuomo. Scherro ferì il gentiluomo et la puttana sfregiata. Sbirri ammazzati. Volevano sapere che i compagni...Fu prigion un anno  e lo volse veder vendere il suo. In prigion confessa vien a Roma né volse..." ( Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura, a c. di Adriana Marucchi, vol I, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1956, p.223 )

              Nei dizionari etimologici spagnoli il termine sgherro (  in origine indicava un capitano, e, propriamente, capo della schiera, dall'alto tedesco skerre;  per passare poi ad indicare una guardia armata e privata di un nobile; forse il significato proviene anche dal latino sicarius ) gerro, significava la guardia armata di un gentiluomo, chiamata anche esbirro  ). Vi fu un delitto per causa di donne fra uno scherro o esbirro o bravo ( è un sinonimo di sgherro, dal latino pravus, malvagio, guardaspalle di gentiluomini di pessima reputazione, poco più che malviventi comuni, soldataglia e vagabondi, di cui parlano le "grida", come quella celebre del 1583, trascritta da Manzoni nei Promessi Sposi  ) e un gentiluomo. Lo scherro ferì il gentiluomo e sfregiò la puttana. Intervennero gli sbirri e alcuni ne rimasero coinvolti finendo ammazzati. Gli sbirri vollero sapere chi fossero i compagni degli arrestati, ma forse Caravaggio, al quale vennero poste precise domande dopo il fermo di polizia, fu reticente o affermò il falso. Questo provocò il suo arresto e la prigione per un anno. Non si tratterebbe quindi di un delitto da parte di Caravaggio intervenuto sguainando la spada per aiutare un amico, ma di una testimonianza reticente, che era stata punita con un anno di carcere. Dalle ricerche effettuate negli archivi criminali milanesi dal Berra (, 2005, cap. XI, p. 234 ) , non si evince che Caravaggio fosse mai stato coinvolto in qualche rissa ( però vi sono varie carenze d'archivio ad annum ) ed anche la possibile falsa testimonianza ipotizzata da Calvesi ( La realtà, 1990, pp. 117-18 ) , non risulta dai registri criminali e in ogni caso era considerata reato grave punibile con la morte. Quindi, un solo anno di prigione come si spiega? Nel 1591 il pittore aveva vent'anni e per la legge era ancora minorenne, pertanto il giudice poteva avere una certa discrezionalità nel giudizio. Vi è un'altra direzione che va seguita. Un manoscritto ottocentesco conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano ( Maurizio Calvesi, Caravaggio i documenti e dell'altro, pp. 19-20 in www.assonet.it, Caravaggio ( da ) Michelangelo. Cronaca artistica a lui relativa, segn. III st DXV,54. ) riporta: " A diciotto anni uccide un compagno con un coltello, ma riacquista la libertà per intervento di Ambrogio Figino...bandito da Milano si ritira a Como, per poi tornare a Milano" . In seguito, riprendendo il Bellori, l'estensore della Cronaca precisa che il pittore raggiunse Venezia dove poté ammirare le opere di Giorgione ( Calvesi, p. 20 ). Dopo quattro o cinque anni raggiunge Roma. L'anonimo autore, dunque, sapeva qualcosa in più che ora la scoperta di un manoscritto di Gaspare Celio, pittore coetaneo di Caravaggio ( 1571-1640 ), autore di una sconosciuta Vita di Caravaggio del 1614 fatta di recente conoscere dal dottor Riccardo Gandolfi che ne sta curando l'edizione critica presso Leo S. Olschki di Firenze, conferma, si dice infatti che Caravaggio uccise a Milano un compagno, forse per errore ( Carole Blumenfield, Caravage aurait commis deux homicides,  in Le Journal des Arts, 476, 31/3, 2017, p.6. In precedenza però ne aveva parlato Fabio Isman in una intervista a Il Messaggero allo stesso Gandiolfi, il 5. Marzo 2017 ) Da queste documentazioni se ne deduce che il pittore fu responsabile di un delitto a diciotto anni ( quindi nel 1589 ), quando a seguito di una rissa uccise con una coltellata un compagno e venne, probabilmente, imprigionato. Ora, a seguito dell'intervento di Ambrogio Figino ottenne la ,libertà ma venne bandito da Milano. Questo pittore decoratore, figlio di una importante famiglia di armaioli, lodato dal Tasso e dal Marino, gran disegnatore e ritrattista,  ( R, P. Ciardi, Giovan Ambrogio Figino, Milano, 1968 e dello stesso la voce nel DBI, vol 47, 1997 ), potrebbe essere stato conosciuto da Caravaggio nell'entourage del Lomazzo e in ogni caso era in rapporti con il Peterzano col quale gareggiò nel Concorso per la decorazioni delle Ante dell'Organo del Duomo. Caravaggio aveva certo visto la sua Madonna con Bambino che calpesta un serpente, nell'Oratorio dell'Immacolata presso la chiesa di S. Antonio Abate a Milano, databile al 1583, della quale aveva notato il particolare del piede del bambino sovrapposto a quello della Vergine poi ripreso nella Madonna dei Palafrenieri . Ma aveva anche avuto modo di vedere il bellissimo S. Matteo e l'Angelo in s. Fedele a Milano, che ebbe certamente importanza nell'iconografia del primo S. Matteo e l'Angelo della Cappella Contarelli.

Ambrogio Figino, San Matteo e l'Angelo, 1587, seconda cappella a destra della chiesa di S. Fedele a Milano. Commons image, Giovanni dall'Orto, 14/02/2008

Giovan Ambrogio Figino, Madonna con Bambino che calpesta un serpente, Oratorio dell'Immacolata di S. Antonio Abate. Fotografia dell'Istituto per il Catalogo e la Documentazione della Fondazione Federico Zeri di Bologna



                 Alla fine degli anni'80 il Figino era all'apice della fama a seguito della vincita del Concorso per le ante dell'organo del Duomo in cui prevalse anche sul Luini e il Procaccini. Doveva essere ben inserito nell'alta società milanese e partecipava all'Accademia della Valle di Blelio. E' possibile che dopo aver lasciato Peterzano nel 1588 Caravaggio si accostasse al Figino, ne divenisse collaboratore e grazie a lui, forse, familiarizzò e si esercitò nelle armi. Dunque, se l'autore della Cronaca è nel giusto, grazie a potenti conoscenze del Figino ( poco amato dai Borromeo ma, sembra, ricercato e protetto dalla nobiltà spagnola a Milano ), Caravaggio, arrestato, venne fatto liberare e bandito dalla città. Quanto poté accadere questo? Non quando il pittore è impegnato nella vendita di terreni e in spartizioni di eredità, cioè fra il 20 giugno 1590 e il 20 maggio 1592, quando se avesse avuto problemi con la giustizia non avrebbe potuto fare alcun atto notarile. Dunque dopo. Se, come sembra dall' interrogatorio del barbiere Giovan Paolo di cui si è detto, il pittore è documentato a Roma non prima del 1596 e se Bellori parla di un arrivo dopo quattro e cinque anni di permanenza al nord ecco che con le date ci potremmo essere. Dopo aver riparato, sembra a Como e un ritorno in clandestinità a Milano, Caravaggio per incorrere nei rigori della giustizia che lo aveva bandito, dovette lasciare la Lombardia ed entrare in territorio veneto dove poteva godere della extraterritorialità e puntare verso Venezia che era la città dove aveva operato Tiziano, maestro di Peterzano. Oggi un viaggio di Caravaggio a Venezia, fosse per motivi di studio o per problemi giudiziari a Milano, non è più messo in discussione dagli studiosi, salvo la negazione di Ferdinando Bologna. La mostra de Gli occhi di Caravaggio. Gli anni della formazione fra Venezia e Milano, del 2011, Museo Diocesiano di Milano, Catalogo Silvana editoriale,  curata da Vittorio Sgarbi, tenta l'illustrazione di un percorso di formazione del Merisi fra pittori veneziani e lombardi. A porre l'accento sul vezianismo, il giorgionismo in particolare, di Caravaggio fu, per testimonianza di Giovanni Baglione, l'accademico Federico Zuccari che di fronte al " rumore" fatto dall'esposizione pubblica della Vocazione di San Matteo a San Luoigi de' Francesi, ebbe a dire: " Che rumore è questo?-e guardando il tutto diligentemente, soggiunse-io non ci vedo che il pensiero di Giorgione nella tavola del Santo quando Christo il chiamò all'apostolato e sogghignando, e meravigliandosi di tanto rumore, voltò le spalle, e andossene con Dio." ( Giovanni Baglione, Vita di Caravaggio in Le Vite, Roma, 1642, p. 137 ). Ora, nel catalogo di Giorgione non risulta una Vocazione di San Matteo; Lionello Venturi pensava che il richiamo al Santo ( S. Antonio a Padova ), si riferisse ad opere giovanili di Tiziano quando ancora egli si confondeva con la pittura di Giorgione: è il caso del Miracolo del Neonato che parla che presenta una composizione simile alla Vocazione , con le immagini disposte parallele al piano di fondo con una flessione centrale e soprattutto la divisione del fondo fra la parte in ombra a destra e la parte in luce a sinistra. Bellori, con riferimento al supposto viaggio a Venezia, riprende la questione del"giorgionismo"di Caravaggio riferendolo alle prime opere come I Bari e scrivendo: " Per alcune discordie, fuggitosene da Milano, giunse in Venetia, ove si compiacque tanto del colorito di Giorgione, che se lo propose per iscorta nell'imitatione. Per questo veggonsi l'opere sue prime dolci, schiette, e senza quelle ombre, ch'egli usò poi; e come tutti i pittori venetiani eccellenti nel colorito,fù Giorgione il più puro et il più semplice nel rappresentare con poche tinte, nel modo stesso portossi Michele, quando prima si fissò intento a riguardare la natura" ( Giovan Pietro Bellori, Vita di Caravaggio, in Le Vite, Roma 1672, ed !976, cit, p.202. Si tratta, dunque di colorismo e naturalismo che caratterizzano tanto l'uno che l'altro pittore; ma soprattutto Zuccari avrà avuto modo di rilevare l'uso della luce, che doveva essere la novità più evidente nell'opera e che Vasari aveva rivelato nell'uso"terribile"di quella nell'oscurità ( Vasari-Milanesi, Le Vite, 1568, cit., Vita di Giorgione da Castelfranco, IV, pp. 91-93 ). Ma Giorgione è avvertito da Caravaggio anche per il carattere amoroso e musicale di alcuni suoi dipinti che visti direttamente o indirettamente mediante stampe, forniscono uno degli aspetti del primo periodo romano del Merisi che dovette certo avere un qualche precedente di formazione fra Venezia e Milano e si pensi a due dipinti della Galleria Borghese, Il suonatore di flauto e il Cantore appassionato.

Giorgione (attr. a ) Il cantore appassionato, 1510, Roma, Galleria Borghese

Se mai si recò a Venezia il Caravaggio non poté non vedere opere importanti che poi ritorneranno nella sua opera pittorica. Parliamo, ad esempio, del Riposo nella Fuga in Egitto di Jacopo da Ponte detto il Bassano, del quale impressionano la testa dell' asino in primo piano, il vecchio san Giuseppe ed il paesaggio nuvoloso di fondo, grigio-azzurro, la quercia a destra, aspetti che in altra forma compositiva ritorneranno nel Riposo della Galleria Doria Pamphili a Roma. Questa opera si trovava a Venezia dove, nel 1612 venne acquistata dal parroco del Duomo di Milano e donata a Federigo Borromeo che la accluse alla collezione che stava predisponendo nella Pinacoteca Ambrosiana ( Su Jacopo Bassano, la voce di William R. Rearick, nel DBI, vol 32, 1986 e Rodolfo Pallucchini, Bassano, Bologna, 1982. sull'opera: Il riposo nella fuga in Egitto. Ritorno e rinascita, mostra di Venezia, Fondazione Querini Stampalia, Venezia, maggio-luglio, 2008,).

Jacopo Bassano, Riposo nella fuga in Egitto, c. 1545, olio su tela, 118x158, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

La grande ricchezza dei dati naturalistici, l'affollamento degli animali ( e si pensi a tal proposito allo stupefacente Orfeo ) e la concentrazione di piante che avevano disturbato il purista Vasari quando si recò a Venezia per aggiornare la seconda edizione della Vite ( Vita di Jacopo Bassano, nella Vita di Tiziano, Firenze, Sansoni, 1881, VII, p. 455 ), doveva certo aver colpito il Caravaggio che del Bassano avrà anche ammirato il sapiente uso della luce ed i contrasti chiaroscurali, la grande umanità e l'aspetto semplice, paesano, delle figure ( guardiamo questo S. Giuseppe che sembra un pastore stanco ). Naturalmente anche Tiziano. Piuttosto che l'Assunta e il Fondaco dei Tedeschi , opere famose di cui gli aveva parlato il Peterzano e di cui aveva visto certo stampe e copie, ci si può soffermare su una tela un tempo notissima e molto stimata, Martirio di San Pietro da Verona, un tempo nella chiesa dei Santi e Paolo, andata poi perduta in un incendio del 1867 e sostituita da una copia di Johann Carl Loth del 1691 ( Pietro Aretino, che l'aveva ammirata con Niccolò Tribolo e Benvenuto Cellini in visita a Venezia, in una lettera al Tribolo aveva detto che era la più bella pittura allora esistente in Italia e Giorgio Vasari lo aveva lodato dicendo che l'opera era "la più compiuta, la più celebrata, e la maggiore e meglio intesa e condotta che altra..."cfr, Stefano Zuffi, Tiziano, Milano, Mondadori, p. 143; Giorgio Vasari, Vita di Tiziano, in Le Vite, ed, 1568, in Vasari-Milanesi vol.VII,, Firenze, Sansoni, 1881, p 439 ). Giorgio Vasari aveva visto la grande pala nel 1566, durante il secondo viaggio a Venezia, poco prima della Seconda edizione delle Vite ed era rimasto ammirato del boscoso fitto paesaggio illuminato da uno squarcio di cielo nuvoloso e azzurrino ed era rimasto colpito dal santo martire " cascato in terra ed assalito dalla fierezza d'un soldato, che l'ha in modo ferito sulla testa, che, essendo semivivo, se gli vede nel viso l'orrore della morte", Vasari, cit., p.438. Caravaggio, forse si ricordò della posizione del Santo in terra con il braccio alzato in alto ed un altro piegato in basso, parallelo al piano di terra, con accanto il killer che lo ha colpito, nel Martirio di San Matteo della Contarelli a San Luigi dei Francesi a Roma ( la posizione delle braccia nei due Santi crollati in terra che gettano lo sguardo terrorizzato ai due soldati omicidi semi vestiti sono aspetti molti significativi ).

Johann Carl Loth, Martirio di S. Pietro da Verona, copia del 1691 da Tiziano, 1528-1530, tela distrutta nell'incendio del 1857, Chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, Venezia 
                
Caravaggio, Martirio di San Matteo, olio su tela, c. 1600, Cappella Contarelli, Chiesa di S. Luigi de'Francesi, Roma


Difficile sapere se Caravaggio fu mai a Venezia, qui si sono avanzate delle ipotesi sulla base di una indicazione manoscritta. La possibilità che esca fuori un documento che fornisca indicazioni più precise c'è sempre, naturalmente anche un documento che documenti che non vi fu mai fuga né viaggio di studio, ma ci piace credere che il grande pittore lombardo anche nella città lagunare poté trovare quegli spunti figurativi necessari a rendere concreta la sua avventurosa scalata ai vertici dell'arte pittorica.








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